2 ago ’14, Nukus – Mongol Rally 2014
Siamo a Nukus, prima grande città dell’Uzbekistan arrivando dal confine kazako. Qualificarla come prima è un po’ fuorviante in quanto dista più di 400 chilometri dalla frontiera con una strada tutt’altro che facile. Per farvi un’idea delle condizioni del manto che abbiamo incontrato, vi basti sapere che nei primi 5 chilometri abbiamo squarciato due gomme e distrutto un cerchione. A causa di questi inconvenienti abbiamo quindi montato la gomma che avevamo precedentemente tolto in Russia prima del confine kazako (e che ha una vita conficcata nel battistrada), ho alzato il piede dall’acceleratore, ci siamo rassegnati a guidare per molte ore al buio e abbiamo proseguito verso est alla volta della nostra destinazione prevista per la notte del 1° agosto. Siamo arrivati all’albergo verso le due di notte, col serbatoio completamente vuoto (in Uzbekistan ci sono solo macchine a gas, quindi non esistono distributori di benzina e bisogna fare affidamento esclusivamente al mercato nero) e distrutti dal viaggio e dalle 5 ore in frontiera.Ad ogni modo, è sabato 2 agosto, siamo a Nukus, c’è l’aria condizionata e possiamo dormire fino a tardi. Alle 08:30 suona il telefono della camera. Rispondo. È la reception che mi avvisa che stanno per terminare la colazione. Siccome appena sveglio non ho la capacita di prendere decisioni, ancora al buio, seguendo il mio olfatto, trovo i vestiti, mi vesto e scendo per fare colazione. Mi viene servita ogni sorta di prelibatezza del luogo: da bere tè, caffè e una specie di acqua di rose, poi un’omelette, degli affettati e del formaggio, un saccottino salato con carne di montone e cipolle, delle frittelle dolci, dei muffin, della giardiniera di verdure, dello yogurt, della frutta e delle barrette al cioccolato. Sorprendentemente riesco a finire tutto e verso le 09:30 esco davanti all’albergo per chiacchierare con il ragazzo della reception. Dal nulla vedo spuntare in strada la macchina del team “12 steppe program” di Angela, Dan e Alec, tre americani di Seattle incontrati la prima volta poco fuori Atyrau mentre venivano perquisiti dalla polizia e poi di nuovo alla frontiera tra Kazakistan e Uzbekistan. Riesco a fermarli e decidono di restare all’albergo per la notte in quanto anche loro sono a secco e devono riparare un problema al cambio.
La giornata viene programmata in base alle cose più urgenti da fare:
- fare benzina;
- riparare le gomme e i cerchioni e cercare un’altra ruota di scorta;
- controllo generale dell’automobile;
- varie ed eventuali.
Chiediamo quindi aiuto al receptionist per recuperare della benzina, lui fa un paio di telefonate e poi ci dice che è tutto sistemato. Una mezz’oretta dopo ecco che arriva davanti all’albergo una vecchia Lada dorata con a bordo due persone che iniziano subito a scaricare bottiglie da 5 litri piene di benzina. Versiamo nel serbatoio i 25 litri che avevo prenotato ma mi rendo conto che avrei dovuto comprarne di più, in quanto fino a Samarcanda difficilmente riusciremo a trovare un distributore e mancano più di 800 chilometri. Dovrò fare tornare queste persone nei prossimi giorni. Il problema ora è che dobbiamo pagare la benzina in valuta locale. Bisogna sapere che è praticamente impossibile, per uno straniero, comprare i Cym nel mercato ufficiale; le banche, oltre a essere quasi sempre chiuse e a non avere disponibilità, applicano dei tassi di cambio molto svantaggiosi. Ovviamente il receptionist accorre in nostro aiuto e ci propone di cambiare i nostri dollari con il suo stipendio: scompare nel retro e torna con circa un metro di soldi. Con queste banconote possiamo pagare la benzina.A questo punto, dalla scalinata dell’albergo, come una principessa al suo esordio in società, scende Alberto, rinfrancato da una lunga dormita e propone di andare a pranzo. Chiediamo le indicazioni per un posto dove mangiare, ci incamminiamo nel sole cocente dell’una, ovviamente ci perdiamo e quindi entriamo nel primo (e unico) ristorante che troviamo.Proviamo a ordinare un misto con le specialità della casa ma dopo interminabili tentativi e incomprensioni, mi faccio dare il taccuino del cameriere e disegno una mucca. Lui annuisce e ammicca in segno di intesa e scompare. Ci vengono quindi servito il pane tradizionale e del tè. Dopo un po’ arrivano i nostri piatti: due polpette di carne alle spezie con riso e (penso) farro.
Poi ordiniamo il dessert, scegliendo rigorosamente a caso quello col nome più lungo e due caffè. Finiamo quindi il pasto mangiando un piatto di girelle e bevendo due caffelatte di orzo.Il punto successivo della lista delle cose da fare è riparare le gomme. Seguendo le indicazioni del receptionist ci rechiamo al bazar dei meccanici, nel distretto dei meccanici. Appena scesi dall’auto veniamo circondati da bambine che ci chiedono dei soldi. Proviamo a spiegare che prima dobbiamo sbrigare delle commissioni e che poi avremmo potuto dare loro quello che ci sarebbe avanzato ma è tutto inutile fino a quando una di loro, tirando la manica ad Alberto, scopre il suo tatuaggio marinaresco, grida qualcosa terrorizzata e, con tutte le altre, si dilegua. Nel frattempo si era radunata una discreta folla di curiosi a cui chiediamo informazioni per le gomme. Cerchiamo di spiegare che dobbiamo cambiare tre gomme (balùn), raddrizzare due cerchi (cerk) e comprare una gomma e un cerchio in più. Qualcuno ci fa segno di salire in macchina e di seguirlo e ci porta da un gommista lì vicino. Il padrone dell’officina prontamente capisce quello di cui abbiamo bisogno e mette al lavoro il giovane.
In circa un’oretta i cerchioni sono stati riparati a martellate, una gomma sostituita e quella con la vite riparata. Durante tutto il tempo, a fronte di una quindicina di persone asserragliate intorno alla macchina a fumare e a farci domande, solo il ragazzo di bottega era indaffarato a lavorare. Dopo aver pagato un conto corrispondete a una decina di dollari, guido la macchina attraverso la strada e dentro l’officina del cambiatore di olio che provvede alla sostituzione dello stesso e alla pulitura del filtro. Finiti queste operazioni sono circa le sei di sera e ci dirigiamo verso il meccanico che dovrebbe dare una controllata generale alla macchina. Superiamo, come da indicazioni, il cavalcavia, al rondò giriamo a destra e dopo la ferrovia ci immettiamo in una stradina a sinistra. Troviamo, con nostro stupore, il posto ma ci dicono che il meccanico è già andato via e di ritornare l’indomani mattina alle nove, no, anzi, alle dieci, facendoci capire a gesti la sete che contraddistingue il suddetto meccanico. Torniamo quindi in albergo e ci prepariamo per andare a cena decidendo di rimandare all’indomani il controllo generale dell’automobile.
Riusciamo a localizzare il ristorante segnalatoci in albergo prima di pranzo e ci troviamo i tre americani del team “12 steppe program” che erano tornati dalla loro gita al Lago di Aral. Ci uniamo al loro tavolo e ceniamo gradevolmente chiacchierando del più e del meno. Dopo un paio di birre torniamo in albergo e andiamo a dormire.
3 ago ’14, Nukus – Mongol Rally 2014
Inizio la giornata facendo colazione con gli americani del team “12 steppe program” al bar dell’albergo e decidiamo di portare le due macchine a revisionare e, eventualmente, a riparare. Il receptionist ci accompagna al distretto dei meccanici dove facciamo controllare e aggiustare la macchina spendendo una cifra inferiore ai dieci dollari. Ci dicono che il pezzo che si è staccato dalla macchina non sanno a cosa serva e ci consigliano quindi di tranciarlo di netto. Noi, con loro disappunto, decidiamo di tenerlo, così, per scaramanzia. Andiamo quindi al bazar di Nukus dove cerchiamo, senza fortuna, un ulteriore cerchione per la panda.
Nel pomeriggio andiamo al museo di arte figurativa sovietica di Nukus che raccoglie, oltre a reperti archeologici di dubbia provenienza, anche opera d’arte di dubbio valore salvate dalla distruzione della nomenklatura sovietica. È da segnalare che il grosso della collezione è rappresentato da dipinti su cartone risalenti ai primi anni ’80; per citare Alberto: “Noi c’avevamo gli ABBA, loro facevano ‘ste croste; dimmi tu chi stava peggio.”
Usciti dal museo, avendo fatto felice la mamma dando un parvenza di cultura al viaggio, ci dirigiamo verso il ristorante della sera prima per prenotare il piatto speciale della cuoca che richiede almeno tre ore di preparazione tra l’uccisione della bestia, il dissanguamento a gravità naturale e l’acquisto della salsa al supermercato. L’aver ordinato un piatto tipico cerimoniale uzbeko ci fa sentire come dei “fieri viaggiatori, non dei semplici turisti”, sensazione di superiorità che Alberto riverserà su ogni persona arrivata in aereo.
Torniamo in albergo ad aspettare l’ora di cena. Alberto va in camera a schiacciare un pisolino mentre io rimango nella hall a riversare le foto sugli hard disk. Nel frattempo chiacchiero con alcuni degli ospiti della struttura, tra cui una signora inglese che lavora come archeologa per l’accademia russa e che sta studiando un vecchio tempio zoroastriano appena scoperto e scampato alle varie razzie cui l’Uzbekistan è stato vittima. Mi racconta anche delle atrocità perpetuate da Tamerlano ma che, negli scritti ufficiale, si è obbligati a parlarne solo bene in quanto è stato adottato dal regime come eroe unificatore nazionale.
Finalmente ceniamo e il piatto non delude: è un bollito con della pasta e delle cipolle. Dopo cena andiamo subito a dormire perché domani ci attende una tappa impegnativa: da Nukus a Samarcanda, più di 800 km con l’incognita della benzina e della macchina.
Lunedì 4 agosto ’14, da Nukus a Samarcanda – Mongol Rally 2014
Oggi è in programma un giorno di viaggio abbastanza impegnativo: dobbiamo andare da Nukus a Samarcanda per un viaggio di poco più di 800 km. Non ci sono frontiere ma le strade, la benzina e la tenuta della macchina sono un’incognita.
Dopo aver fatto colazione e aver pagato l’albergo, aspettando Alberto, parlo con una videomaker che sta lavorando a un progetto per far conoscere l’Uzbekistan in Europa. Chiacchieriamo di attrezzatura fotografica fino all’arrivo del suo taxi. Alberto scende dalla camera, carica la macchina e partiamo.
L'eroico receptionist di Nukus
Appena usciti da Nukus, buco uno stop di un posto di blocco della polizia, mi fanno accostare e cercano di darmi una multa. Intuisco che la multa consiste in una mazzetta quindi facendo finta di non capire nulla di quello che mi viene chiesto, riesco a ripartire senza tirare fuori un dollaro. Ci fermiamo quindi per fare benzina a un distributore ma è rimasto solo il gas. Arriva anche un’altra macchina del Mongol Rally, appartenente al team “5 camels and a cameleon”, che ci chiedono se possono seguirci alla ricerca di carburante. Circa un chilometro dopo mi fermo a un negozietto sul ciglio della strada per chiedere se vendessero benzina. Veniamo quindi indirizzati verso una traversa della strada principale dove ci attende un uomo disposto a venderci della benzina nella sua fattoria.
Riempito il serbatoio ripartiamo in direzione Samarcanda, in quanto è quasi mezzogiorno e mancano ancora più di 550 km. La strada costeggia l’antica via della seta e, secondo Alberto, vi si possono scorgere ancora dei resti dell’antico cammino.
Dopo una collinetta, a metà del rettilineo in discesa, troviamo un altro posto di blocco della polizia che decido, come è ormai mia abitudine, di passare senza fermarmi. Veniamo quindi fatti accostare e scorgiamo la macchina del team inglese “5 camels and a cameleon” che ha fatto il mio stesso errore. Ci dirigiamo quindi tutti verso il baracchino dei poliziotti dove ci vengono fatte le domande di rito: “da dove venite?”, “dove andate?”, “in Mongolia?”, “perché?” con l’aggiunta di “lo sapete che avete bucato uno stop?”. Ci fanno segno di seguirli all’interno della casetta e gli inglese vengono rilasciati subito. A me, dopo aver registrato il mio passaggio sul loro librone, viene ritirata la patente e mi viene chiesta una mazzetta. A questo punto non posso fare finta di non capire il russo o cosa sta succedendo; dovrò usare un’altra tattica. Mi tolgo quindi il cappellino, mi scrollo un po’ di polvere dai vestiti e mi siedo comodamente sul divanetto di fronte alla scrivania del poliziotto, lasciando intendere che ho più tempo che dollari e che sarei potuto rimanere tutto il tempo necessario. Il militare sembra sorpreso e divertito. Chiacchieriamo un po’ dell’Uzbekistan e dell’Italia; mi dice che apprezza molto Celentano (come tutti in Asia Centrale) e intoniamo le prime strofe de “Il ragazzo della via Gluck”. Siccome siamo ormai amiconi, mi rende la patente e mi scorta fino alla macchina, consigliandomi di fermarmi allo stop successivo.
Lì in mezzo ci sono io che cerco di spiegare a gesti perché continui a non fermarmi agli stop della polizia
Guido senza ulteriori problemi per un centinaio di chilometri e dopo l’ennesimo posto di blocco della polizia, incontriamo due ragazzi tedeschi che stanno girando questa parte del mondo a bordo di una enorme Mercedes classe G superaccessoriata e terribilmente adatta alla marcia nel deserto.
Visto che siamo fermi decidiamo di comprare qualcosa da mangiare; nel negozietto lì vicino, il cui commesso ha la maglia di Bale, compriamo del pane nan e dei biscotti e quindi ci rimettiamo in viaggio.
All’ultimo posto di blocco prima del calare del buio troviamo il personaggio del giorno. Dopo aver svolto le registrazioni di routine, vengo avvicinato da un rubicondo poliziotto che, col suo stentato inglese, si presenta e inizia a chiacchierare amabilmente con l’intero team. Dice di chiamarsi Arabobo e di apprezzare la musica italiana, in particolare Al Bano e Celentano. È quasi buio quindi decidiamo di rimetterci in cammino ma, prima di poter rientrare in macchina, Arabobo ci dice che dobbiamo dargli 150 dollari. Noi ci guardiamo per un attimo e scoppiamo in una fragorosa risata. Alberto sale in macchina, io do una pacca sulla spalla al simpatico poliziotto, lo saluto, mi metto al posto di guida e sempre ridendo come se mi fosse appena stata raccontata la migliore barzelletta del mondo, riparto verso la nostra destinazione.
Arriviamo a Samarcanda che è già buio. Per arrivare al nostro ostello, situato nel quartiere ebraico, dobbiamo circumnavigare il muro eretto per evitare che i turisti escano dalla zona turistica e finiscano nelle zone più povere della città. Riusciamo tuttavia, dopo vari tentativi, ad arrivare a destinazione per le 23:00 e, dopo aver lasciato la macchina, veniamo accompagnati ai nostri appartamenti. Ceniamo con ramen all’uovo, chiacchieriamo con degli spagnoli che hanno partecipato al Mongol Rally nel 2012 e quindi andiamo a dormire.
Martedì 5 agosto ’14, Samarcanda – Mongol Rally 2014
Dopo un’eccellente e abbondante colazione preparo l’attrezzatura fotografica (in quanto scarsamente utilizzabile nei giorni di viaggio, a causa della polvere e del fatto che devo guidare) e ci incamminiamo verso il centro della leggendaria città di Samarcanda.
Ci dirigiamo per prima cosa verso il Registan, piazza simbolo dell’Asia Centriale su cui si affacciano tre maestose madrase terminate tra il 1420 e il 1660.
Non riuscendo però a trovare l’ingresso alla piazza decidiamo di andare a visitare la sinagoga e prendiamo una stradina secondaria.
Ci ritroviamo all’entrata del bazar principale di Samarcanda (il Siab Bazaar) e cogliamo l’occasione per visitarlo, fare qualche foto ed eventualmente comprare qualche ricordino. Vi viene venduto di tutto: spezie, verdure, pane, carne, frutta secca, utensili per la casa, piccola elettronica, cappelli buffi e tessuti, solo per citare le merci maggiormente presenti.
All’uscita troviamo una comitiva di torinesi e approfittiamo della loro guida per farci indicare la direzione per la sinagoga che risulta essere dietro al nostro ostello. Nel tragitto per arrivarci ci fermiamo a pranzo e decidiamo di visitare prima la moschea di Biby-Khanym, una delle più grandi di sempre.
Compriamo poi delle cartoline e torniamo in ostello per il troppo calore. Nel tardo pomeriggio torniamo a visitare il Registan, di cui troviamo l’ingresso, e il bazar.
Si è fatta ora di cena quindi mangiamo del plov in una casa del tè e poi del gelato rientrando in ostello. Non visitiamo la sinagoga.
Mercoledì 6 agosto ’14, da Samarcanda a Dushanbe – Mongol Rally 2014
Precisazione: questo post conterrà poche immagini a causa della lunghezza e difficoltà della tappa, ci scusiamo per l’inconveniente.
Dopo una sveglia ai limiti dell’umano e la colazione, chiediamo ad Abdu, il gestore dell’ostello, quale sia il migliore confine per andare dall’Uzbekistan al Tajikistan. Come ci era stato detto da altri team, purtroppo quello diretto tra Samarcanda e Dushanbe è chiuso e le alternative sono due: passare da sud o da nord, in direzione Bekabad. Noi scegliamo di andare verso Bekabad poiché le strade dovrebbero essere migliori, anche se dopo il confine ci aspettano le montagne e la strada da percorrere supera i 600 chilometri.
La vista di Samarcanda dall'ostello
Prima di lasciare Samarcanda dobbiamo cercare qualcuno che ci venda della benzina. Ci viene in soccorso Abdu che ci indica la zona in cui si concentra il mercato nero di carburante. Alberto, come suo solito, funge da navigatore. Bisogna sapere che per lui la strade migliore è sempre la più breve tra due punti e per calcolare il tragitto anche questa volta non cambia filosofia. Ci ritroviamo quindi in brevissimo tempo nella “favela” di Samarcanda. La strada è una latrina non asfaltata a cielo aperto, alla nostra destra vi sono case di fango diroccate e palesemente sovrautilizzate, alla nostra sinistra un salto di una decina di metri che finisce in una discarica e in un torrente. Intorno a noi decine di bambini divertiti e anziani che, seduti all’ombra di muretti, ci guardano con fare interrogativo. Noi proseguiamo a passo d’uomo rispondendo a ogni compiaciuto saluto e arriviamo, abbastanza a sorpresa, sulla strada principale a due corsie separate da un muretto. Si può girare solo a destra ma noi dobbiamo andare a sinistra. [Piccolo excursus: le regole della strada in Asia Centrale sono abbastanza elastiche: si può fare praticamente tutto, basta non intralciare i camion e i taxi che non si scanseranno per nessun motivo, per il resto basta avvisare le altre vetture con ripetute e ritmiche strombazzate di claxon. Nel caso però si venisse fermati dalla polizia bisogna ricordarsi che in questi paesi la giustizia è matematica: basta pagare e l’infrazione sparisce.]
Ci immettiamo quindi, svoltando a sinistra, nel traffico contromano e, suonando il claxon per avvisare le macchine della nostra presenza, avanziamo fino al primo incrocio dove possiamo entrare nella giusta carreggiata di marcia. Troviamo, come predetto, i venditori di benzina e facciamo il pieno quindi partiamo in direzione di Bekabad. A metà mattina veniamo fermati da un’auto della polizia che ci contesta una velocità di 85 km/h su di una strada con limite di 70 km/h. Per quanto scritto nell’excursus di cui sopra, con una mazzetta di 10 dollari l’infrazione scompare e siamo liberi di continuare il nostro viaggio.
All’ora di pranzo, visto che la tappa è di notevole lunghezza, decidiamo di fermarci a pranzo in un locale per camionisti sul ciglio della strada. Mangiamo panzerotti di montone e cipolle e poi degli spiedini bevendo del tè. Proviamo anche a chiedere se possono spedire le nostre cartoline ma quando gliele mostro loro le osservano con attenzione, mi fanno i complimenti per le belle foto e mi mostrano delle loro foto del posto in cui vivono e di dove sono stati. A quanto pare in Uzbekistan le cartoline non sono comuni come in occidente.
Ripartiamo e ci portiamo a una decina di chilometri dal confine dove ci fermiamo a un posto di blocco. Alle domande di rito rispondiamo che stiamo andando a Dushanbe e il poliziotto ci informa che il confine lì vicino è unicamente a uso dei pedoni e che quindi non avremmo potuto attraversarlo con la macchina. Ci dice però che il confine per le vetture è a una cinquantina di chilometri più a nord così è lì che ci dirigiamo trovandolo non senza qualche difficoltà. Siamo però l’unica macchina in coda quindi non dobbiamo aspettare praticamente nulla.
Dopo i timbri di rito sui passaporti, al controllo doganale decidono di ispezionarci tutta la macchina e i bagagli. Non ce l’aspettavamo e, vuotando tutto il carico dalla macchina, mi rendo conto che ho lasciato la mazzetta con tutte le valute per il viaggio nella tasca superiore della borsa fotografica. Potrebbe essere un problema giacché abbiamo dichiarato di non avere con noi contanti e non sappiamo cosa potrebbe comportare questa incongruenza. Il sergente inizia col controllare gli scatoloni del cibo, poi passa all’attrezzatura da campeggio e alla maschera da cavallo decide di fare uno scherzone alla guarnigione. Ne approfitto per mettere gli zaini sul tavolo di ispezione in modo che la tasca superiore di quello contenente l’attrezzatura fotografica sia poco visibile. Il militare torna e si mette ad aprire e a svuotare tutti gli zaini, io gli rimango sempre di fianco e gli spiego a cosa servono le strane cose che trova. Prima che possa avvicinarsi allo zaino in questione, mi faccio avanti e, con la scusa che l’attrezzatura è molto costosa, lo apro io e gli indico i vari obiettivi spiegando le loro caratteristiche tecniche e a cosa servono. Lui, visibilmente annoiato dalla mia nerdaggine fotografica, mi fa segno di richiuderlo e di ricaricare tutto in macchina senza ispezionare tutte le altre tasche.
Rimontata la macchina, ripartiamo e ci portiamo a ridosso del confine tajiko dove, prima ancora di varcare i gloriosi cancelli per uscire dalla terra di nessuno, ci fanno compilare una declaratia quindi ci fanno accedere alla frontiera. Il primo controllo dei passaporti è veloce e indolore, al secondo passo della procedura mi vendono un foglio bollato per 5 dollari di cui non ho mai capito la funzione, il terzo step è il controllo doganale. Dopo aver sbagliato l’ingresso ed esserci fatti urlare “demonio” in italiano da un camionista per l’errore commesso, pagando 25 dollari all’ufficiale incaricato (non abbiamo capito se sia un dazio ufficiale o una mazzetta) ci fanno passare senza alcun controllo e finalmente siamo in Tajikistan.
Il paese sembra da subito molto povero, in deciso contrasto con quanto visto fino a qui. Vi sono molti animali liberi per strada e le case sono tutte di mattoni di fango e consumate dal tempo. Seguiamo la strada per Dushanbe e arriviamo a una grande città dove decidiamo di fare benzina. È già notte e l’unico distributore che accetti le carte di credito è il gazprom dello stadio dove si sta disputando un incontro di lotta del campionato asiatico quindi tutta la zona è congestionata dal traffico. Riusciamo a raggiungerlo e a fare il pieno e ne approfitto per comprare una redbull, una jaguar (bevanda energetica che poi scopriamo avere il 7% di alcol), due panzerotti, una busta di patatine al granchio e una al montone. Ci rimettiamo in cammino mangiando quanto ho comprato ma i panzerotti devono essere subito buttati dal finestrino in quanto la carne di montone al loro interno ha il gusto dei detersivi e ci viene a entrambi da vomitare dopo ogni morso.
Altra foto del locale di pranzo
Arriviamo finalmente alle pendici delle montagne che ci separano da Dushanbe verso le 11 di sera. Pago il casello più caro dell’Asia centrale (23 sum, quasi 5 euro) e iniziamo la salita ma, dopo una curva, prendo una buca di sbieco e distruggo una gomma e ammacco il cerchione. Provvediamo prontamente a sostituirla ma la ruota di scorta è sgonfia e il cerchione è deformato. La situazione è critica: siamo nel mezzo delle montagne tajike, sono quasi le 11 e mezza di notte, inizia a fare freddo, ci manca una ruota e siamo ancora lontanissimi dalla nostra destinazione. Faccio rimontare la gomma squarciata e decido di guidare fino a valle per cercare aiuto. Dopo circa un’oretta arriviamo al casello dove ci fanno ripagare, parcheggio in mezzo ai tir ed entro nel bar dei camionisti per cercare aiuto. Miracolosamente un afgano capisce quello che sto cercando di dire ed esce in nostro soccorso. Riesce, a martellate, a raddrizzare il cerchione deformato e, col compressore del suo camion, rigonfia la gomma quindi la rimontiamo e siamo pronti per ripartire.
Ripaghiamo il casello e iniziamo, per la seconda volta, la scalata delle montagne. Con tir che sfrecciano da tutte le parti e strade sterrate e pericolosamente esposte, superiamo un paio di colli fino a che troviamo una galleria: è a malapena a due corsie, non ci sono areazione né illuminazione, ma è asfaltata e la percorriamo in circa 20 minuti. La vallata successiva sembra possa condurci direttamente a destinazione senza altri patemi, ma ci sbagliamo. All’improvviso la strada sale con pendenze del 17% (dato comprovato dai cartelli a bordo strada) fino a uno spiazzo su cui si apre un buco rossiccio da cui esce una fitta coltre di fumo. È ciò che i locali chiamano “La Galleria Dell’Inferno”, ma questo ancora non lo sappiamo. Entriamo con la sicurezza dei principianti e all’improvviso siamo catapultati nel posto più pericoloso visto finora. Ecco alcuni dei problemi notati dal team:
- la galleria ha un’unica corsia perché la seconda è in costruzione;
- la seconda corsia è in costruzione in quel momento;
- ci sono lavoratori lungo tutto il tunnel;
- non c’è asfalto;
- ci sono 15 cm di acqua per terra;
- ci sono buche enormi;
- ci sono quasi 50 gradi centigradi e un’umidità da sauna;
- non c’è illuminazione;
- non c’è areazione;
- c’è un fumo che impedisce di vedere la fine del cofano;
- ci sono tir che viaggiano nei due sensi di marcia e non frenano davanti a nulla;
- ogni tanto ci sono blocchi di cemento non segnalati che impongono di cambiare corsia.
Impieghiamo, per uscire da questo incubo, circa 50 minuti ma poi la strada è tutta in discesa e arriviamo a Dushanbe per le 4:30 del mattino. Dobbiamo solo trovare l’albergo ma le mappe di google ci portano nel posto sbagliato. Proviamo a cercare un wifi aperto senza successo e a telefonare ma nessuno risponde. Finalmente verso le 6 di mattina riusciamo a entrare in contatto con l’hotel e ci facciamo venire a prendere. La giornata potrebbe finire qui ma la mia camera non è ancora pronta così faccio colazione e, distrutto, vado a dormire alle 8:30 di mattina. Però siamo arrivati in Tajikistan.
Giovedì 7 agosto ’14, Dushanbe – Mongol Rally 2014
La mia sveglia suona alle 11:30, dopo neanche 3 ore di sonno, ricordandomi che ho cose da fare e poco tempo. Vado a bussare ad Alberto nella remota possibilità che sia già sveglio e voglia mangiare qualcosa e, sorprendentemente, lo trovo già pronto. Usciamo dall’albergo cercando un locale che cucini della carne e ci incamminiamo verso il parco, dove ci sediamo al Café Mockva, specializzato in spiedini di carne e birra ghiacciata. Ordiniamo 3 spiedini di vitello a testa e ci gustiamo la freschezza dell’ombra e la gentile brezza che soffia dalla fontana lì vicino.
Il nostro hotel a Dushanbe
Dopo pranzo ritorniamo in albergo e Alberto torna a dormire mentre io, con un fattorino dell’hotel, vado a far riparare le gomme e pulire la macchina. C’è un piccolo momento di panico prima di partire quando non trovo le chiavi della macchina da nessuna parte ma poi vado a vedere se le ho lasciate nella serratura ed è proprio lì che le trovo, dimenticate dal nostro arrivo all’alba.
Mentre aspetto che il lavoro venga completato regalo qualche spilla ai bambini del luogo quindi torno in albergo.
Prima di cena c’è il momento culturale di Dushanbe che consiste nel visitare una rotonda enorme con all’interno due obelischi e un carro armato sovietico. Successivamente ceniamo al ristorante libano/siriano Al-Sham con kebab misto e milkshake quindi torniamo a dormire perché domani ci aspetta la famigerata autostrada M41 che attraversa il Pamir.
Venerdì 8 agosto ’14, da Dushanbe a Khorog (giorno 1) – Mongol Rally 2014
Oggi iniziamo l’autostrada del Pamir che dovrebbe portarci in tre o quattro giorni in Kirghizistan. La tappa odierna è da Dushanbe a Khorog, circa 520 chilometri di strada montana di cui non sappiamo le condizioni né prevedere i tempi di percorrenza. Leggiamo sulla guida che i fuoristrada la percorrono in circa sedici ore, noi quindi preventiviamo di metterci otto o nove ore.
Partiamo da Dushanbe di buon’ora e subito ci fermiamo a fare benzina, a controllare le gomme e a comprare un paio di litri di RC Cola, la Coca-Cola del posto la cui etichetta dice sia stata inventata nel 1905 in Georgia, USA. Appena fuori la città ci imbattiamo in un susseguirsi di banchetti che vendono scope e ci fermiamo per comprarne una, senza evidenti motivazioni o utilità alcuna.
La strada per i primi 100 chilometri è pianeggiante e ben asfaltata, così che ci fermano due pattuglie della polizia dotate di autovelox per contestarci la velocità eccessiva ma riusciamo a evitare le multe, una volta facendo finta di non capire cosa ci venisse detto, l’altra pagando una mazzetta di 10 dollari alle sempre affidabili forze dell’ordine. Dopo un posto di controllo dei documenti, prendiamo il bivio verso Khorug e iniziamo con la strada montagnosa e in salita.
Le nostre aspettative dell’M41 vengono subiti soddisfatte: strada sterrata a tre quarti di corsia, da un lato una parete verticale di roccia, dall’altro uno strapiombo sul fiume di decine di metri e, in mezzo, un continuo via vai di camion sovietici, TIR, fuoristrada giapponesi e minibus.
Ogni volta s’incontra un mezzo che viaggia nella direzione opposta, facendosi da parte per lasciarlo passare, si rischia la morte. Percorriamo queste piste per una ventina di chilometri e incontriamo il nostro primo torrente da attraversare. Emozionati, accendiamo la GoPro e ci apprestiamo a registrare il nostro eroico guado. Rallento prima di mettere le ruote in acqua per assicurarmi di non toccare terra col fondo dell’auto e poi piano piano avanzo verso la sponda opposta. Sembra che sia andato tutto per il meglio ma il pandino inizia a perdere potenza fino a fermarsi. Il motore gira a vuoto e, anche con le marce inserite, non riusciamo ad avanzare. Scendiamo a verificare il danno e ci accorgiamo che non c’è nulla che noi possiamo fare per riparare il motore sul posto.
Decidiamo di fermare qualcuno per vedere se si riesce a fare qualcosa per farci continuare (o almeno tornare verso un meccanico). Si ferma un 4×4 di una famiglia tajika e, dopo aver ispezionato il veicolo, ci dicono che si è staccato un bullone che tiene insieme il motore e il cambio (ci sembra di aver capito) così che la forza del motore non si trasmette alle ruote e che, se ritroviamo i pezzi, c’è la possibilità di ripararlo. Inizia quindi la ricerca del bullone perduto per tutta la strada fino al ruscello. Cerchiamo anche nell’acqua, con le mucche che ci guardano interrogative mentre si abbeverano, ma troviamo solo un tubo metallico e un piattello. Guardando meglio ci rendiamo conto che il piattello era saldato al motore e che si è staccato colpendo una roccia sommersa e che quindi non c’è modo di ripararlo.
Si ferma un camioncino pieno di coloro che sembrano dei santoni musulmani e ci dicono che il meccanico più vicino è al bivio precedente, a circa 20 chilometri di distanza. In quel momento passa un fuoristrada della Croce Rossa e facciamo segno all’autista di fermarsi. Acconsentono, anche se di mala voglia, di trainarci dal meccanico. Salutiamo la piccola folla amichevole che si è riunita per aiutarci e partiamo in direzione del meccanico.
Il simpatico artigiano, dopo essere andato ad acquistare i pezzi necessari, ci ripara la macchina e, a poche ore dal tramonto, possiamo rimetterci in viaggio.
Ormai è tardi e dobbiamo accamparci sul lungo della strada. Il caso vuole che, dopo circa un’oretta, incontriamo una carovana di tre team del Mongol Rally e decidiamo di accamparci con loro in una radura sul lungo fiume. Montiamo le tende, mangiamo la pasta all’amatriciana, ci raccontiamo alcune delle nostre avventure davanti al fuoco e poi andiamo a dormire.
Sabato 9 agosto ’14, da Dushanbe a Khorog (giorno 2) – Mongol Rally 2014
Mi sveglio prima del suono della sveglia, puntata per le sette di mattina, e vedo che nessuno è ancora in piedi. La cosa mi stupisce poiché la sera prima gli inglesi avevano detto che la loro partenza era fissata per le otto in punto e noi ci eravamo adeguati. Aspettando Alberto mi metto a riordinare la macchina in maniera che il materiale di cui abbiamo maggiormente bisogno sia accessibile più agevolmente e, quando si sveglia, dopo essersi bevuto il caffè, partiamo lasciando il convoglio ancora addormentato. Al seguente villaggio facciamo benzina a un distributore gestito da bambini e poi riprendiamo la strada in direzione di Khorog.
Non sappiamo quanto ci rimanga da percorrere ma, sperando che la macchina regga, dovremmo arrivare in giornata. La strada migliora leggermente ma, ai primi scossoni, si stacca la marmitta. Scendiamo a controllare e non possiamo fare altro che staccarla completamente con l’aiuto di un coltellino svizzero e della mazza da baseball e caricarla nel bagagliaio. Ora la panda ha davvero il suono di una macchina da rally. D’ora in poi, ogni bambino salutante o ogni ragazza degna di nota, riceverà una sonora sgasata di saluto/assenso.
Dopo un paio di colli con quote non elevatissime, raggiungiamo una città di confine: al di qua del fiume è Tajikistan, al di là è Afghanistan. Facciamo la spesa per il pranzo in un supermercato e poi, costeggiando il fiume, avanziamo verso la nostra destinazione.
Non abbiamo nessun problema fino al tardo pomeriggio quando, prima di un ponte crollato, cercando di superare dei TIR parcheggiati, ci impantaniamo nella sabbia. Abbiamo bisogno del soccorso di un fuoristrada ma riusciamo a liberarci. Ci dirigiamo quindi verso il posto di blocco a ridosso del ponte dove, dopo averci controllato i documenti, alla nostra domanda di quanto manchi per Khorug, ci rispondono circa 160 chilometri. Dobbiamo prima però superare il ponte crollato utilizzando un guado di fortuna costruito dai camionisti.
Come avvenuto con la maggior parte degli attraversamenti dei ruscelli fino qui, facciamo dei danni: sulla salita per rientrare in strada, superando un dosso notevolmente appuntito, tocchiamo il suolo col sotto della macchina. Controlliamo subito i danni e non dovrebbe esserci nulla di rotto ma notiamo che perdiamo qualche goccia di olio. Al primo meccanico, sebbene sia già scesa la notte, ci fermiamo per fare controllare la macchina ma ci viene detto che è solo una guarnizione del motore allentata. Noi, per quel poco che conosciamo di meccanica, sappiamo che non è il motore che perde quindi, con una scusa, affermiamo che non possiamo fermarci a fare riparare la macchina e continuiamo il nostro tragitto.
Gli ultimi quaranta chilometri fino a Khorug sono su di una strada buona e ne approfittiamo per accelerare un po’ e fare, occasionalmente, delle gare con le altre macchine che incontriamo. Con questo divertente passatempo arriviamo a destinazione e ci mettiamo alla ricerca di una sistemazione per la notte. Accamparci non è una soluzione possibile in quanto molti dei campi e dei prati dei dintorni sono ancora minati e siamo, letteralmente, a portata di tiro dall’Afghanistan. I primi due alberghi in cui chiediamo sono completi. Cerchiamo quindi l’ostello consigliato dalla guida ma non riusciamo a trovarlo; l’unica possibilità rimasta è vedere se hanno posto nel solo albergo in cui non siamo ancora stati, il Serena. Questa sistemazione propone camere di gran lusso con prezzi che, data la zona, quasi nessuno si può permettere e, per nostra fortuna, ha ancora delle camere libere per la notte. Alla fine, abbondantemente dopo la mezzanotte, andiamo a dormire. Il programma per l’indomani è: trovare un ostello meno dispendioso e fare riparare la perdita dell’auto.
Le seguenti foto sono immagini dell’Afghanistan.
Domenica 10 agosto ’14, Khorog – Mongol Rally 2014
Oggi è domenica (non che importi durante il Mongol Rally) ma noi ne approfittiamo per svegliarci comodamente verso le 11 del mattino e, essendo gli unici ospiti dell’albergo, riusciamo anche a farci servire la colazione. Ci prepariamo quindi senza fretta e ci dirigiamo verso l’ostello più economico, il celebre Pamir Lodge, sperando di riuscire a trovarlo con la luce del giorno. Incontriamo sulla strada un gruppo di giovani che sono palesemente dei turisti francesi, ci fermiamo, chiediamo loro informazioni e, seguendo le loro indicazioni, arriviamo in breve tempo alla struttura. Pranziamo con un bollito di montone e verdure e io porto la macchina dal meccanico consigliatoci dall’oste. ll meccanico da cui vado lavora in casa (è per questo che è l’unico aperto di domenica) e, dopo aver ispezionato la macchina, mi dice che non può fare nulla perché non ha l’attrezzatura per sollevarla.
Torno in ostello a bere il tè. Nel frattempo arrivano gli inglesi con cui ci eravamo accampati qualche sera prima e decidiamo di organizzare una partita di calcetto.
La sera andiamo a cena tutti assieme ma, trovando il locale chiuso, cuciniamo il cibo che ci eravamo portati dietro nel parcheggio dell’ostello.
Lunedì 11 agosto ’14, da Khorog a Osh (giorno 1) – Mongol Rally 2014
Dopo un’abbondante colazione in ostello ci rechiamo in paese per cercare un meccanico in grado di riparare la perdita di olio della macchina.
Dopo un paio di tentativi infruttuosi presso officine non dotate della necessaria attrezzatura, guidando lentamente in una via parallela alla strada principale, troviamo una persona stesa per terra intenta a lavorare sulla parte inferiore di una macchina. Ci fermiamo e gli chiediamo se è in grado di ripararci la macchina. Lui mette il pandino sul crick, colloca una pietra sotto la ruota posteriore e quindi sparisce sotto il veicolo per ispezionare il problema. Quando riappare ci dice che non può riparare il guasto ma che può bloccare la perdita d’olio per permetterci di arrivare a Osh, distante una giornata di guida, dove sono in grado di aggiustarlo e si mette subito al lavoro.
Rinfrancati da questa notizia, dopo aver comprato una RC Cola al market lì vicino, ci sediamo su un muretto all’ombra e guardiamo il meccanico lavorare mentre intorno a noi si forma una piccola folla.
Chiacchieriamo in russo e in inglese con alcune ragazze che fanno da interpreti per gli adulti presenti mentre i bambini giocano sul marciapiede. Un’oretta dopo il meccanico ci dice che, con le fascettature di rigore, il problema è arginato e, quando gli chiediamo dove poter riparare la ruota di scorta, si offre di sistemarla lui. Prende perciò la gomma e scompare lungo la via. Le ragazze intanto ci offrono del tè ma noi rifiutiamo per non disturbare, però, quando ci chiedono i nostri contatti facebook, siamo felici di accontentarle. Il meccanico ritorna con la gomma riparata e una sorpresa: è tutto gratis. Cerchiamo di capire il perché e ci viene detto che siccome non ha riparato il danno ma ha solo rattoppato la falla, non ha fatto il suo lavoro e perciò non vuole essere pagato. Noi ringraziamo sentitamente e ripartiamo verso il ristorante indiano in cui Alberto è due giorni che vuole mangiare ma lo troviamo chiuso. Ci dirigiamo quindi verso il ristorante del parco di Khorug e durante il tragitto Alberto riceve i complimenti di alcuni ragazzi del luogo. Mangiamo wurstel, patatine, salsicce in pastella, gelato e tè al lampone. Andiamo quindi in ostello a caricare i bagagli e lasciamo Khorug guidando sulla M41, la famigerata Pamir Highway.
Al primo distributore incontriamo tre spagnoli su di una Panda 4×4 cui hanno appena fatto risaldare il telaio; li salutiamo, scambiamo quattro parole e ripartiamo. Subito dopo ci imbattiamo al solito posto di blocco per il controllo dei documenti e mi chiedono una mazzetta di 200 dollari che io, per non cambiare, non pago e riprendiamo il cammino. La strada si mantiene discretamente bella, è in continua ascesa e solo in cima ai passi è sterrata ma rimane abbastanza veloce perché non ha buche.
In cima al terzo e ultimo colle, all’inizio dell’altipiano del Pamir e a una quota superiore ai 4.200 metri sul livello del mare, di colpo, il motore si spegne. Accosto e provo a rimettere in moto ma, nonostante il motorino d’avviamento giri, il motore non si accende. Aperto il cofano, costatiamo, con disappunto, che il blocco motore non è più collegato al telaio, ma penzola mestamente sorretto solo dal supporto destro. Inoltre, nel suo movimento mosso dalla gravità, ha spaccato tutta la parte inferiore da cui, ora, gocciola olio copiosamente. Fortunatamente si ferma un gruppo di camionisti per darci una mano: per prima cosa, col loro aiuto, rimettiamo il motore in sede e lo fissiamo con un bullone al telaio, poi cerchiamo di fare ripartire il pandino, ma invano.
Le ipotesi sono due: o il guasto è dovuto alla pompa della benzina oppure il problema è imputabile all’impianto elettrico. Capiamo che abbiamo bisogno di un meccanico così ci facciamo trainare verso il paese più vicino da un tir. Appena cominciata la discesa, però, mi accorgo che non avendo visibilità, con la corda di traino troppo corta e con i freni a servizio ridotto, rischio di non frenare in tempo e di scontrarci col camion che ci tira. Decido quindi di staccare il cavo di traino e di lasciare andare il tir. Siamo di nuovo fermi a bordo strada, il sole sta tramontando e iniziamo a sentire freddo, anche indossando le giacche invernali. All’orizzonte ecco però apparire una sagoma familiare: è la Panda 4×4 del team spagnolo incontrato poche ore prima. Facciamo loro segno di fermarsi e, nel nostro tristissimo spagnolo, spieghiamo il nostro problema. Uno di loro allora tira fuori dal bagagliaio una valigetta piena di attrezzi meccanici ed elettrici e inizia a fare il check al nostro pandino. Il risultato è che non arriva corrente alle candele e che quindi non vi è combustione nei cilindri. Controlliamo tutti i contatti ma non troviamo il guasto quindi ci rassegniamo e chiudiamo il cofano. Loro si offrono di trainarci fino al paese successivo alla ricerca di un meccanico. Tirano fuori la corda di traino, la legano al posteriore della loro auto e alla barra anteriore della nostra e ripartiamo. Durante il primo pezzo di strada pianeggiante non vi sono problemi e possiamo anche fare foto e video ma, non appena la strada inizia a salire e la corda va in tensione, la nostra barra si piega e il loro paraurti posteriore (assieme alla loro targa) si stacca: avevano attacco la corda alle due macchine non al telaio ma ai paraurti.
Ci rassegniamo quindi a passare la notte in tenda in quota e ci congediamo dal team spagnolo giacché non vogliamo rallentarli ulteriormente. Parcheggiamo la macchina a bordo strada e iniziamo a scaricare il necessario per la notte. Montiamo il campo alla luce delle lampade e al freddo (il termometro segna già temperature inferiori allo zero alle otto di sera), mangiamo delle scatolette in tenda e poi ci corichiamo.
Qui è dove ci siamo accampati.
Verso mezzanotte mi viene in mente che il problema potrebbe essere dovuto all’interruttore di sicurezza della macchina. Mi vesto a vado a controllare ma la macchina continua a non partire. Faccio un paio di foto al cielo siccome c’è la “super luna” quindi torno nel sacco a pelo tutto vestito ma per il freddo non chiudo occhio fino alle prime luci dell’alba.
Quest'ultima foto è un palese (e tristissimo) fotomontaggio ma non si vedevano le stelle...
Martedì 12 agosto ’14, da Khorog a Osh (giorno 2) – Mongol Rally 2014
Mi sveglio dopo un paio di ore di sonno. La luce del mattino ha scaldato la tenda quel poco che basta per dormire ma, appena esco, il vento che aveva iniziato a soffiare nella notte mi ricorda del posto estremo in cui mi trovo. La temperatura ancora sotto lo zero e il vento orizzontale non mi permettono di fare colazione quindi vado a controllare la macchina. Spero in un miracolo che non avviene: il motore continua a non avviarsi. Arriva anche Alberto e fermiamo un tir e un minibus ma neanche loro riescono a far ripartire il pandino. Ci dicono che a trenta chilometri c’è un meccanico così spedisco Alberto sul minibus a cercarlo e a portarlo alla macchina. Rimango quindi da solo. Smonto il campo nonostante il vento, faccio qualche foto alle mucche che pascolano sull’altipiano, poi tiro fuori la sedia e mi metto a leggere al sole protetto dalla macchina.
Per quasi due ore non passa nessuno poi, quasi magicamente, all’orizzonte appare un ciclista che si ferma a mangiare dei plum cake e a bere un po’ d’acqua. È inglese, sta facendo il giro dell’Asia Centrale pedalando in solitaria perché “non aveva di meglio da fare” ed è in giro da oltre un anno.
Poco prima che riparta arriva un fuoristrada UAZ Patriot guidata da Anton, un russo che sta visitando il Pamir con la ragazza. Riesco a convincerlo a farmi trainare fino al meccanico nonostante anche loro abbiano dei problemi al motore. Prima usiamo il mio cavo da traino ma dopo un paio di chilometri si spezza, quindi usiamo il suo. Sbagliamo inoltre strada e ci impantaniamo nella sabbia. Faccio inversione spingendo il pandino a braccia e, ritornati sulla strada giusta, siccome il loro fuoristrada non ha abbastanza potenza per trainarmi in sicurezza, decido di lasciarli andare e di aspettare qualcun altro.
Anton è così dispiaciuto di non potermi aiutare e di lasciarmi lì che, dopo esserci scambiati i contatti e gli indirizzi, mi invita a casa sua e mi regala il cavo di traino e una scatoletta di carne. Al mio appunto che non ho un apriscatole e che quindi non avrei potuto mangiarne il contenuto, lui mi dice che non ce l’ha nemmeno lui e che è il gesto del regalo che conta, indipendentemente dall’utilità.
Sono di nuovo solo nell’altipiano del Pamir; ritiro fuori la sedia, i plum cake, l’acqua e il libro e cerco di ricavare il meglio dalla situazione.
Dopo l’ora di pranzo vedo arrivare un pulmino pieno di persone che si ferma dove sono io e da cui scende Alberto, seguito da quello che sembra un militare e da gente assortita. Sono il meccanico e la guarnigione del paese successivo, compreso l’ufficiale in carica. Alberto mi spiega che non avendo lui i documenti e i militari nulla da fare, questi ultimi hanno deciso di accompagnarlo a recuperare il pandino. Il meccanico apre il cofano e si mette a fissare l’auto il più forte che può, poi gira la chiave per metterla in moto e, infine, sentenzia che non può ripararla lì ma che bisogna trainarla alla sua officina, presso il paese successivo: Alichur. In men che non si dica la guarnigione collega il pandino al minibus, risale nel veicolo (uno si siede vicino a me nel posto del passeggero e si addormenta subito) e si riparte. Nelle salite, poiché la macchina del meccanico ha una cilindrata di 1.1 litri, tutti scendono e spingono, mentre nelle discese si stacca il cavo di traino e si lascia che il pandino sfrutti la gravità. Poco prima della destinazione ci fermiamo perché l’ufficiale deve chiedere una mazzetta a un camion che abbiamo incrociato e io ne approfitto per scattare un paio di foto.
Finalmente, nel pomeriggio inoltrato, arriviamo a casa del meccanico e lui si mette, con altre persone del luogo, a ispezionare il motore. Noi chiacchieriamo con alcune ragazze del luogo e ammiriamo il panorama.
Ci si avvicina il meccanico con delle cattive notizie: è rotto un pezzo elettrico e lui non può ripararlo. Dobbiamo portare la macchina al prossimo paese, Murghab, distante più di 100 chilometri. Si offrono di accompagnarci loro: caricheranno la macchina sul retro di un camion sovietico e noi viaggeremo in cabina. Contrattiamo il prezzo e poi iniziano i preparativi. Rimontano il motore del camion, si controllano tutti i livelli e viene fatta benzina. Trainano quindi il pandino fino a una strada rialzata dove viene caricato sul retro del camion e noi prendiamo posto sulla panca insieme al meccanico e a un suo giovane assistente.
Il viaggio dura più di quattro ore in quanto ogni paio di chilometri l’autista deve scendere a innaffiare d’acqua il motore per raffreddarlo e a versare benzina nel cofano (?). Arriviamo quindi a Murghab alle undici di sera ed è già notte inoltrata; non ci portano all’ostello che abbiamo scelto bensì al parcheggio dei tir del paese e a una pensione lì vicino. Mentre parliamo con la proprietaria per sapere se c’è posto arriva una macchina della polizia da cui scende un agente che inizia a farci domande sulla macchina. Inizialmente pensiamo voglia la solita mazzetta ma poi capiamo che vuole comprare la nostra Panda. Gli diciamo che prima di venderla vogliamo provare a ripararla e che poi, eventualmente, ne avremmo parlato. Lui insiste e noi, sfiniti, gli diciamo che non vogliamo venderla. A questa notizia riparte nella sua ronda notturna e noi prendiamo due camere alla pensione. Ora dobbiamo scaricare la macchina dal retro del camion; la procedura è, teoricamente, semplice: il camion si avvicina a un muretto e si spinge la macchina fuori dal cassone. Andiamo quindi al parcheggio dei tir per farlo ma vediamo che il meccanico e il suo amico sono stanchi e non sembrano voler fare un buon lavoro. Io ripeto loro che se la macchina si dovesse rovinare durante la procedura non li avrei pagati; loro mi assicurano che non ci saranno problemi. Iniziano gonfiando le ruote del lato sinistro (precedentemente sgonfiate in fase di carico) usando un compressore di un camion. Le gomme si gonfiano senza problemi. Passano quindi al lato destro ma le gomme sono uscite dalla sede dei cerchioni a causa dei movimenti del camion e non sono quindi gonfiabili. Bisognerebbe alzare la macchina col crick solo che il camion è in discesa perciò decidono di scaricarla con due gomme a terra. Dopo parecchi sforzi e con il nostro aiuto, si riesce a metterla sul muretto, non senza prima sfregare tutto il pianale sul bordo del camion e del muretto. Ora però la Panda è bloccata perché dietro di lei c’è una montagnola di detriti, davanti un muretto di un metro e mezzo, ha due gomme a terra che ora i trasportatori si rifiutano di riparare e/o gonfiare e il motore non parte. In aggiunta, arrivano due ragazzi del luogo che ci garantiscono che non svaligeranno la macchine durante la notte, ovviamente in maniera ironica. Noi siamo distrutti dopo i due giorni appena passati in altura così prendiamo tutte le cose di valore dalla macchina, la chiudiamo, paghiamo il meccanico e il suo amico e ci dirigiamo verso l’ostello. Nel tragitto incontriamo il poliziotto che persevera nel voler comprare la Panda; facciamo finta di non capirlo, non ci fermiamo e ci infiliamo nella pensione. Alberto va subito a dormire mentre io mangio la colacena e poi, anch’io, distrutto, vado a letto.
Mercoledì 13 agosto ’14, da Khorog a Osh (giorno 3) – Mongol Rally 2014
Nota: per circostanze particolari, nella giornata raccontata in questo post non ho avuto a disposizione le macchine fotografiche digitali. Le immagini inserite in seguito sono quindi scansioni di negativi in bianco e nero e non pretenziose postelaborazioni di immagini digitali.
Mi sveglio presto e vado subito a controllare l’auto. C’è tutto tranne lo stemma del cavallo alato: una perdita trascurabile ma che, per la prima volta dalla partenza, ci ricorda dei potenziali pericoli dei luoghi che stiamo attraversando, probabilmente con troppa leggerezza. Torno quindi in ostello a fare colazione con l’immancabile frittata in compagnia di un francese che sta lavorando al suo libro fotografico sulle persone e i paesaggi del Tajikistan. Arriva anche Alberto e, mentre fa colazione, chiediamo alla gestrice delle guest house di chiamarci “il miglior meccanico in città” (ad Alberto piace fare lo splendido) e, aspettandone l’arrivo, ci mettiamo a guardare Sharknado 2. Proprio mentre il tornado di squali sta per colpire New York, una ragazza dell’ostello mi avvisa che il meccanico mi sta aspettando alla macchina. Lascio Alberto a guardia dell’attrezzatura fotografica e mi dirigo verso il pandino, dove mi attende una piccola folla di curiosi tra cui il poliziotto della sera precedente. Saluto il meccanico e, dopo le chiacchiere di rito, inizia a sistemare le gomme del lato destro mentre il poliziotto mi prende da parte per cercare di convincermi a vendergli la macchina. Mi dice che si è già informato in centrale, che si occuperà lui di tutti i documenti e delle tasse d’importazione e che l’unica cosa che devo fare è decidere un prezzo. Fortunatamente arriva il francese che mi aiuta a spiegare all’agente che, per me, vendere l’auto è proprio l’ultima opzione disponibile. Gonfiate le gomme, attaccano il pandino a una Lada 4×4 che prima lo traina sulla strada e poi verso la casa/officina del meccanico, una costruzione di mattoni di fango nel quartiere più povero del villaggio, aggrappata alla collina a circa due chilometri dall’ostello. Non appena arriviamo, veniamo accolti dalle donne di casa e dai bambini che mi fanno sedere su di uno sgabello mentre il meccanico e suo cognato smontano il motore e tutti i collegamenti elettrici per cercare il problema.
Quando arriva il padre del meccanico, l’uomo più vecchio della casa e quindi, per questo, capofamiglia, mi invita a entrare in casa e mi fa servire del tè, del pane nan e una zuppa di latte, brodo e pane. Dopo la seconda colazione torno fuori nel cortile ad assistere ai lavori. Hanno controllato tutti i contatti e i cavi elettrici e sono giunti alla conclusione che il pezzo non funzionante è la bobina che controlla i giri del motore. Io ora sono più fiducioso delle capacità dei meccanici poiché è lo stesso pezzo individuato come causa dei problemi anche dal meccanico di Alichur il giorno prima. Staccano questo pezzo dalla macchina e iniziano a pulirlo, a saldarlo e a incollarlo.
In risposta a un urlo proveniente dalla casa, i bambini prendono un sedile posteriore di una vecchia Lada, lo posano rovesciato su tre mattoni di fango in un angolo del piazzale all’ombra, vi dispongono intorno altri mattoni e il tavolo e le sedie per pranzare sono pronti. Mi dicono di accomodarmi e che avrei mangiato con gli uomini della famiglia. Viene quindi servito del tè e un plov di riso, uvetta e albicocche che mangiamo con le mani dal piatto di portata. Questo pranzo, sia per il gusto e la qualità del cibo, sia per la situazione e l’ambientazione inconsuete, sia (e soprattutto) per l’ospitalità e la generosità degli ospiti nei miei confronti, è stato uno dei pasti migliori del viaggio (se la gioca forse solo con la cena dell’arrivo). Dopo pranzo si riprende l’attività; si ultima il lavoro di saldatura e incollatura della sonda ma, dopo averla rimontata, il motore ancora non si accende. Avendo finito tutte le idee riguardo all’origine del guasto, il meccanico decide che il problema è imputabile alla centralina, in quanto non è possibile aprirla per controllare. Mi comunica che il pezzo nuovo costa 250 dollari e che arriverà in due o tre giorni. Non sono per nulla convinto che il problema sia dovuto alla centralina così telefono a Totò, il mio elettrauto di fiducia. Sebbene sia in vacanza, mi risponde e mi consiglia, dopo aver sentito del tipo di problema e del crollo del motore che lo ha causato, di controllare il pezzo appena risaldato perché, secondo lui, è quasi sicuro che sia quello a bloccare l’accensione. Prima di riagganciare gli chiedo se sia possibile riparare il pezzo saldandolo e mi risponde che bisogna necessariamente cambiarlo. Poiché, senza sapere che quella bobina era effettivamente rotta, mi ha consigliato di controllarla mi convinco che il problema risieda proprio lì e perciò chiedo al meccanico, sempre convinto di dover cambiare la centralina, se, nel caso avessimo cambiato quest’ultimo pezzo e la macchina non fosse partita, avrei dovuto lo stesso pagare il pezzo di ricambio. Sentendosi offeso da questa mia mancanza di fiducia nella sua competenza professionale, rimonta il motore, chiude il cofano e si mette a fumare in un angolo del piazzale. Io, in risposta, mi metto a fare foto al paesaggio.
Passa circa un quarto d’ora e il meccanico mi si avvicina e mi dice di seguirlo. Apre il cofano e con un amperometro vuole mostrarmi come non passi corrente dalla centralina. Con sua somma sorpresa, però, da questo test sembra che la centralina funzioni alla perfezione. Controlla ancora un paio di volte, sempre con lo stesso risultato, poi, piuttosto sconcertato e avvilito, mi offre una sigaretta come gesto di scusa per la scenata di poco prima e mi fa segno di seguirlo. Saliamo sulla macchina di suo cognato e ci dirigiamo verso il deserto. Circa tre chilometri dopo, quando iniziamo già a preoccuparmi, ci fermiamo davanti a una cascina sul bordo della strada, entriamo ed è, con mia meraviglia, un rivenditore di ricambi per auto. Su di uno scaffale, appena dietro al bancone, illuminato dal raggio di luce che filtra dalla porta socchiusa, ecco un pezzo molto simile a quello che dobbiamo sostituire. Il meccanico lo ispeziona per un momento poi sentenzia che potrebbe andare bene. Me lo fa comprare quindi torniamo all’officina ma, una volta montato, ci accorgiamo che è troppo corto. Chiama allora il nipote e mi manda con lui al bazar a cercarne uno adatto mentre tenta di rendere il pezzo appena comprato compatibile. Nonostante chiediamo in ogni bancarella e negozietto, il pezzo non si trova; lo cerchiamo anche presso tutti gli sfasciacarrozze della zona ma, ormai, sta scendendo la sera quindi torniamo in officina senza il pezzo di ricambio. Troviamo il meccanico che sta riparando le gomme alla macchina; si è arreso all’evidenza che non riuscirà a fare ripartire il pandino così mi propone di chiamare il proprietario dell’unico camion ZYL del paese e di chiedere a lui se è disponibile a portarci a Osh, la città più vicina, dove crede il guasto potrà essere riparato. Ci mettiamo d’accordo per il trasporto poi torno in ostello dove ceno con Alberto con un piatto misto di verdure e carne e alle 21 andiamo a dormire in quanto l’indomani abbiamo la partenza fissata per le 9.
Giovedì 14 agosto ’14, da Khorog a Osh (giorno 4) – Mongol Rally 2014
La sveglia suona alle sette. Ci trasciniamo in cucina dove chiediamo la colazione quindi andiamo a preparare i bagagli. Mangiamo e poi aspettiamo il meccanico che dovrebbe venire a prenderci. Alle otto e mezza finalmente arriva e ci accompagna dal proprietario del camion che ci trasporterà a Osh. Scopriamo che hanno caricato la macchina durante la notte così per le nove siamo pronti a partire. La mattinata scorre lentamente sulle strade dell’altipiano del Pamir; in lontananza si vede la Cina ma il paesaggio rimane molto monotono.
All’ora di pranzo ci fermiamo a Karakol tuttavia non mangiamo nulla perché il negozio è chiuso. Verso le due del pomeriggio arriviamo al confine tra Tajikistan e Kirghizistan. Alla prima frontiera incontriamo un team che ha rotto il cambio e sta aspettando il pezzo di ricambio da Osh. Superiamo i controlli abbastanza agevolmente e ci dirigiamo, nella terra di nessuno, verso il secondo posto di blocco. Qui abbiamo qualche difficoltà a capire se ci serva o meno la declarazia ma, alla fine, ci fanno passare.
A destra si può vedere l'autista che paga delle mazzette alla polizia.
L'autista che prende acqua per raffreddare il camion.
Nel tragitto verso la destinazione inizia a piovere e siamo costretti a rallentare in quanto il camion non ha i tergicristalli. L’autista ci chiede se vogliamo fermarci per mangiare qualcosa ma noi rispondiamo che vogliamo andare a Osh senza fermarci. Arriviamo, dopo altre sei o sette ore di guida, che è ormai notte. Dopo aver parcheggiato il camion al posteggio dei tir, il cugino dell’autista ci accompagna in ostello. Qui incontriamo gli italiani del team Rust & Dust con cui andiamo a mangiare spiedini di polpette. Torniamo in ostello e ci addormentiamo subito.
Venerdì 15 agosto ’14, Osh (giorno 1) – Mongol Rally 2014
Oggi ho appuntamento con l’autista alle nove di mattina al parcheggio dei tir per scaricare la macchina e portarla dal meccanico. Mi sveglio quindi alle otto, faccio colazione, saluto il team italiano “Rust & Dust” in partenza per Bishkek e mi dirigo verso il limite della città, dove abbiamo posteggiato il camion la sera prima. Trovo il conducente con evidenti postumi di una nottata passata nella grande città a spendere i soldi guadagnati trasportandoci fin là, ma non posso fargliene una colpa: è passato da un villaggio di 4.000 abitanti a 3.650 metri sul livello del mare in cui non c’è neanche un bar o ristorante e l’elettricità è disponibile per massimo quattro ore al giorno (e neanche tutti i giorni) a una città in stile occidentale, con night club, un luna park e, addirittura, una yurta a tre piani.
Purtroppo questa foto non l'ho fatta io perché non mi ci hanno portato.
Iniziamo lo scaricamento gonfiando le gomme usando il compressore del suo camion, poi accostiamo l’autocarro a un muretto, mettiamo in sicurezza il portellone con alcune grosse pietre e infine, con l’aiuto di alcune persone raccattate in loco, scarichiamo il pandino.
Siccome l’autista è di buon umore, propone di andare a cercare il pezzo noi stessi, così, eventualmente, da risparmiare il costo del carro attrezzi. Chiamiamo un taxi e ci facciamo portare al bazar delle auto, vicino al cimitero islamico, sulla collina di Osh. Nonostante le nostre ricerche, non riusciamo a trovare il generatore d’impulso; comprensibilmente, in Asia Centrale non arrivano i pezzi di ricambio Fiat e quello più simile che troviamo è della Mercedes.
Il venditore però mi dice che conosce un buon meccanico che si rifornisce da lui e può chiamare un carro attrezzi per portare la macchina alla sua officina: in questo modo non rischiamo di comprare un pezzo sbagliato. Siccome bisogna anche riparare la parte inferiore del motore e riattaccare la marmitta replico che va bene, contrattiamo il prezzo del trasporto e quindi torniamo al parcheggio dei tir ad aspettare il carro attrezzi. Mi congedo pertanto dall’autista, che riprende la via per il Pamir, e, una volta giunto l’automezzo e caricata la macchina sul rimorchio, la trasportiamo dal meccanico. Qui mi dicono che ci vorranno all’incirca cinque giorni per ottenere il pezzo e perciò di passare il mercoledì seguente. Torno in ostello a vedere cosa voglia fare Alberto e andiamo a pranzo al Caffè California, dove mangiamo due enormi pizze. Torniamo in pensione, al pomeriggio lavoriamo un po’ al computer quindi, per cena, andiamo al pub a rifocillarci con bistecche e polpette al formaggio.
Da sabato 16 a venerdì 22 agosto ’14, Osh – Mongol Rally 2014
Dal 16 al 22 agosto rimaniamo bloccati a Osh nell’attesa che la macchina venga riparata. Non succedono molte cose, ecco un breve elenco di quelle di maggior interesse:
– visitiamo il bazar.
Sezione frutta e verdura:
Macelleria: (sconsigliata ai deboli di stomaco, soprattutto per il puzzo incredibile)
Reparto varie ed eventuali:
Spezie e altri generi di conforto:
La pittoresca porta di uscita:
Alberto che sembra un gigante vicino a una vecchina:
– incontriamo e ceniamo con un team australiano chiamato “4 and ½ men” in un ristorante che dovrebbe ricreare l’ambiente di una cascina di caccia zarista. Ordiniamo più o meno a caso e a due di loro arriva un piatto enorme con una trentina di salsicce. Ne mangiano circa 20 a testa prima di abbandonare l’impresa distrutti.
– facciamo spese ciccione a base di gelato, brioche, merendine, torte e bibite gasate e poi mangiamo tutto davanti a serie tv e a filmacci. Tanto per dirne due: Spaced (entrambe le stagioni) e 22 Jump Street.
– ho trovato e raccolto dei libri russi da un bidone della spazzatura. Tra di questi c’è la biografia di Platini.
– andiamo ogni giorno dal meccanico a controllare lo stato di avanzamento dei lavori. Facciamo risaldare tutto il motore, cambiare il generatore d’impulso (facendolo arrivare dal cuore della Russia), ricostruire le crociere andate distrutte sul Pamir, riattaccare la trasmissione, risaldare la marmitta, riparare le perdite d’aria dai cerchioni e sistemare le sospensioni. Non riusciamo a farci montare la slitta sotto il motore perché la macchina è troppo bassa e toccherebbe per terra.
– mangiamo tantissimo. I nostri ristoranti preferiti sono: il Caffè California, dove fanno delle pizze giganti, la cascina dello zar, dove si mangia carne a volontà, il Bridge, un pub della mala russa (nella foto sotto) e una discoteca della borghesia oshiana chiamata Izium in cui, grazie al cambio favorevole, facciamo i gran signori mangiando in un tavolo a bordo pista e offrendo bibite a tutte le ragazze che ci passano a portata di fischio.
– visitiamo i molti monumenti sovietici.
– ci accorgiamo che ad Alberto è scaduto il visto russo e cerchiamo un modo per rinnovarlo. In agenzia di viaggio non riescono ad aiutarci così andiamo al consolato e lo troviamo chiuso. Decidiamo quindi di provare a ottenerlo nella prossima città, sede di un’ambasciata.
– passiamo i pomeriggi a chiacchierare con gli altri ospiti della pensione.
Sabato 23 agosto ’14, da Osh a Biškek – Mongol Rally 2014
Finalmente, dopo oltre una settimana di riposo forzato, siamo pronti a riprendere il nostro viaggio. La macchina è stata riparata e, durante il tragitto dal meccanico alla pensione, tranne che per una leggera tendenza a tirare da una parte, sembra quasi sia in condizioni migliori di quelle che aveva alla partenza.
L’appuntamento è alle otto e mezza di mattina per fare colazione e per preparaci alla partenza. Dopo aver mangiato, carichiamo la macchina, buttiamo via le cose inutili, controlliamo i livelli, le gomme e che non ci siano perdite e poi ci dirigiamo verso la banca, dove ritiriamo della valuta locale in quanto resteremo in Kirghizistan almeno ancora per una notte.
Verso le nove e mezza ci mettiamo in strada in direzione Biškek. A metà di Lenin Street (anche i locali la chiamano in inglese, quindi mi sono adeguato) giro a destra sul ponte, superiamo il consolato russo in cui non ci hanno fatto nemmeno entrare e, dopo il parcheggio dei camion all’ingresso della città, prendo la strada diretta verso la nostra destinazione. Alberto, seguendo quanto indicato dal google maps (che Dio maledica il responsabile dell’Asia Centrale), mi fa fare inversione a U e mi dice di imboccare una stretta stradina che sembra perdersi in un bazar. Subito ci accorgiamo di quanto sia diversa dalla superstrada; per iniziare è completamente sterrata, poi si dipana in piena pianura, circondata da donne al lavoro nei campi, bambini che giocano nei corsi d’acqua e mucche che mangiano l’immondizia. (Stavamo per fare una foto a un vitello che ruminava pacifico una bottiglia d’acqua ma non abbiamo colto l’attimo. Era, in ogni caso, una scena ilare.)
Proseguendo imperterriti su quella strada incrociano e ci immettiamo sulla strada asfaltata con destinazione Biškek che avevamo lasciato circa un’ora prima. Neanche il tempo di congratularci l’un l’altro per il notevole successo che Alberto mi dice di fermarmi perché secondo lui abbiamo la ruota posteriore destra a terra. Gli dico di aprire la portiera e di sporgersi a controllare (il suo finestrino è bloccato dal primo giorno in Kazakhstan) e purtroppo ha ragione. Accosto sul ciglio della strada e procediamo a sostituire lo pneumatico. Grazie alla notevole esperienza acquisita durante il viaggio siamo di nuovo in movimento in meno di cinque minuti. Ci fermiamo al primo gommista a far riparare la foratura e poi guido fino all’ora di pranzo senza particolari eventi da segnalare tranne il fatto che un sassolino solevano da un’auto che i precede ci fa un buco al parabrezza.
Per pranzo ci fermiamo a un magazin dove compriamo latte alla fragola, biscotti, carne in scatola, gelati, succhi di frutta, bibite assortite e acqua. Iniziamo a mangiare nel piazzale antistante al negozio e mi accorgo che il latte ha una consistenza decisamente poco liquida. Rientro a chiedere se sia normale e la commessa gentilmente mi fa notare come quello sia dello yogurt che quindi io mi gusto con piacere. A mia discolpa devo dire che non avevo mai visto dello yogurt in bottiglie dl genere, ma sono queste piccole differenze che ti fanno notare le diversità culturali dei popoli, un po’ come la storia del Royal Con Formaggio e della maionese sulle patatine.
L’inizio del pomeriggio lo passiamo su di una strada montagnosa tutta a curve che per un po’ costeggia quello che sembra un lago artificiale e poi si arrampica per dei colli di altezze non indifferenti. Verso le quattordici mi fermo a comprare tre prodotti che creano dipendenza: red bull, chocolate pie orion e semi di girasole e poi di nuovo verso le diciassette facciamo merenda con sprite, gelato e biscotti.
Nel frattempo registriamo il video in cui urino sul punto di inaccessibilità terrestre. Voglio puntualizzare che la possibilità di richiedere un video al team era data come ricompensa per i sostenitori che avevano dotato per l’associazione che sosteniamo.
Poco prima che scenda il buio, ci fermiamo a cenare in un ristorante in una gola montagnosa. Lo stile del locale è tipicamente alpino, con interni in legno, caminetto e palchi di animali appesi alle pareti ma il menù è decisamente caratteristico della zona. Mangiamo zuppa con carne e stufato di montone mentre guardiamo in televisione l’equivalente kirghizo di MTV, solo che i video sono di una tristezza disumana.
Ripartiamo che è notte e guido per delle ore su strade montagnose piene di curve, gallerie e strapiombi in mezzo ai folli camion e tir centroasiatici, ma dopo il terrorizzante tunnel della morte della strada per Dushanbe, non temiamo più nulla. Per rimanere sveglio, comunque, ascolto un paio di puntate di scientificast e mangio tortine al cioccolato orion.
A: "Col nuovo kit ha aggiunto due cavalli al veicolo."
B: "Giuro che, se ci fosse, ti abbandonerei in autostrada."
A circa 150 chilometri dalla destinazione, prendo una buca del manto stradale troppo allegramente col risultato che il piccolo foro che ci eravamo procurati in mattinata si trasforma in una preoccupante crepa che percorre orizzontalmente tutto il parabrezza. Controllando il danno, ovviamente senza fermarmi, non mi accorgo del primo stop della polizia della giornata e lo oltrepasso senza nemmeno un accenno di rallentamento. Veniamo fermati subito dopo da un paio di militari con i fucili puntati che mi intimano di portare i documenti al posto di polizia. È quasi mezzanotte e sono stanco; prendo quindi la banconota in dollari di taglio minore che abbiamo (20 usd, mannaggia) e la metto nel passaporto, per evitarmi un secondo viaggio tra l’ufficio del comandante e il pandino. Come da copione, dopo aver ispezionato distrattamente la mia patente internazionale e il libretto dell’auto, il militare di grado più alto mi dice che deve farmi una contravvenzione e tira fuori il foglio A3 che dovrebbe compilare. Contemporaneamente però il sottoposto chiude distrattamente la porta dell’ufficio così che io possa, con nonchalance, far scivolare sulla scrivania il passaporto con all’interno la mazzetta. Lui, ovviamente, si finge indignato (non si capisce mai se per il tentativo di corruzione o per lo scarso ammontare monetario dello stesso), io gli dico di considerarlo solo un regalo, quindi, dopo un’energica stretta di mano e un mio rifiuto di brindare a vodka al trovato accordo, posso riaprire la porta e tornare nella fredda notte kirghiza.
Arriviamo finalmente a Biškek. Alberto ha selezionato un paio di ostelli sulla guida in cui andare a cercare una sistemazione per la notte. Essendo ormai tardi decido di chiedere a un tassista di farci strada fino alle destinazione desiderate. Facciamo fatica a trovare un taxi e quando, dopo parecchie strade sbagliate, consultazioni di cartine e telefonate a casa, giungiamo agli ostelli, li troviamo tutti invariabilmente chiusi. Prendo quindi la difficile decisione di passare la notte nell’unico (ma lussuoso) albergo consigliato dalla guida e che avevamo visto durante la nostra ricerca degli ostelli.
Sporchi come poche altre volte e con una macchina pronta alla rottamazione, parcheggiamo davanti all’Hotel Holiday di Biškek e io entro a chiedere se hanno due stanze. Il receptionist dice che c’è posto e quando gli chiedo il prezzo lui me lo dice in valuta locale. Nel tempo in cui io applico a mente il tasso di cambio, contando sulle dita e mormorando sotto voce, lui mi dice che visto che non c’è praticamente nessuno, ci farà uno sconto del 30%. A questo punto gli chiedo di dirmi il prezzo finale in dollari e quando realizzo che è molto ma molto meno di quanto immaginato, rispondo che prendiamo le camere. Adesso succede una cosa che potrei aver frainteso io (considerate che sono quasi 16 ore che guido) ma potrei giurare che sia andata esattamente così. Lui, receptionist di un albergo pluristellato vestito in alta uniforme, alla notizia che avrei preso le camere, si sporge dal bancone e porge la mano aspettando che gli batta il cinque, in barba a ogni protocollo e regola di etichetta. Io, super esalato, non posso che partecipare al festeggiamento.
Esco a informare Alberto che ci saremmo fermati lì per la notte e scarico i bagagli dall’auto. Vado poi, col responsabile della sicurezza dell’albergo, a parcheggiare nel cortile interno. Quando torno nella hall Alberto ha prenotato cena. Il receptionist, così dice lui, gli ha detto di non esitare a chiedere a lui per ogni necessità, così Alberto ha fatto chiamare un fast food e ha ordinato cena (cheeseburgers, patatine, bibite gasate e via dicendo) facendocela consegnare in albergo con un taxi.
La giornata finisce quindi con noi in condizioni pietose, sporchi e affamati come delle bestie, che mangiamo cheeseburgers kirghizi all’una e trenta di notte seduti sulle poltrone della hall di un albergo di lusso mentre lanciamo languide occhiate al whiskey scozzese lascivamente appoggiato su una mensola dietro al bancone del bar.
Domenica 24 agosto ’14, da Biškek ad Almaty – Mongol Rally 2014
Cartina un po' più larga, giusto per dare le proporzioni.
Il tragitto previsto per oggi è relativamente breve, circa 250 chilometri. Prevediamo di percorrerlo in meno di quattro ore, e, se vi sommiamo il paio di ore che perderemo alla frontiera tra il Kirghizistan e il Kazakhistan, non staremo in viaggio per più di sei ore. È pertanto la giornata giusta per non mettere la sveglia e dormire fino a tardi.
Mi sveglio quindi verso le nove e vado al ristorante all’ultimo piano dell’albergo a fare colazione con cappuccino (l’unico degno di questo nome da oltre un mese) e brioche. Poi esco in terrazza a scattare foto alla macchina e al paesaggio e a poltrire al caldissimo sole di Biškek.
Guardandomi nel riflesso delle porte a vetri mi accorgo che ho sul viso una barba degna dei migliori esploratori vittoriani ma anche che dovrei sistemarla per evitare rogne alla frontiera. Purtroppo, per portare a termine il mio piano, ho bisogno di un paio di forbici, uno dei pochi oggetti che mancano alla dotazione della nostra Panda rossa. Scendo quindi in reception a chiedere dove posso comprarne un paio e, ottenute le indicazioni, mi dirigo verso il negozio. Esco dall’albergo e mi incammino verso destra. Supero il monumento dedicato ad Aaly Tokombaev, guardo una comitiva nuziale mentre fa le foto davanti alla chiesa dall’altra parte della strada e, arrivato all’incrocio con il prospekt principale, mi giro e torno indietro: fa troppo caldo e ho deciso che la barba va bene così com’è.
Torno a leggere sulla balconata all’ultimo piano dell’albergo e, verso mezzogiorno, faccio chiamare Alberto per raggiungermi per mangiare. Pranziamo con club sandwich, manty e un gioioso assortimento di dessert poi, dopo aver caricato la macchina, partiamo in direzione del confine col Kazakhistan.
Appena fuori Biškek una pattuglia della polizia mi ferma e mi contesta un eccesso di velocità: stavo andando a 51 chilometri all’ora in una zona il cui limite è solo di 40. Pago una mazzetta di 10 dollari statunitensi, chiedo indicazioni per il confine e poi ci rimettiamo in marcia. La strada è a quattro corsie asfaltata decentemente, ai margini scorre, da una parte, un ruscello mentre dall’altra è affiancata da una lunga fila di alberi. Oltre, a perdita d’occhio, vi sono campi coltivati su cui vagano capi di bestiame e agricoltori.
A circa un chilometro dal confine inizia la coda. Noi facciamo gli italiani e la saltiamo allegramente e, a una decina di macchina dalla sbarra che segnala l’inizio della zona militare, cerchiamo di infilarci di nuovo in fila.
Per nostra fortuna, una vecchia berlina Lada al nostro fianco si spegne e non sembra volersi rimettere in modo; noi ne approfittiamo e rientriamo in coda sfruttando lo spazio che si è creato. Non sembra che riusciremo a entrare nella zona dei controlli in tempi brevi, così scendiamo dalla macchina per non morire di caldo. La Lada dietro di noi continua a non avere l’intenzione di accendersi; io mi avvicino al cofano al faccio segno all’autista di aprirlo poi con espressione concentratissima mi metto a fissare il motore il più intensamente che posso. Controllo i cavi, i livelli e verifico le candele, poi mi sporgo lateralmente e faccio segno al guidatore di provare a mettere in modo. Incredibilmente la macchina si accende al primo colpo: ne sono stupito ma cerco di non farlo vedere e mi comporto come fosse una cosa normale. Faccio un cenno di intesa col capo, come per dire: “non dovrebbe più dare problemi”, richiudo il cofano, tiro fuori dalla tasca un sacchetto di semi di girasole e mi metto a sgranocchiare chiacchierando con altre persone in coda.
Scatto un paio di foto per finire il rullino (non vorrei che mi aprissero la macchina ai controlli), vado verso il fiume dove c’è un bazar improvvisato e compro qualcosa da bere poi, finalmente, risalgo in macchina e entriamo nella zona militare.
Superiamo i soliti controlli, compiliamo le ennesime dichiarazioni, giochiamo con Borat, il cane della frontiera kazaka (giuro), smontiamo la macchina e apriamo tutti i bagagli e, dopo circa un’ora e mezza, rientriamo nel glorioso Kazakhistan.
La strada fino ad Almaty non è per niente male e veniamo intrattenuti dagli stop delle altre macchine.
All’entrata della città c’è un traffico incredibile e perdiamo un paio di ore. Quando siamo in centro cerco un taxi per farci scortare fino all’albergo ma non ce ne sono. Alberto allora prende in mano la situazione e, armato di cartina, riesce a farci raggiungere l’Hotel Voyage senza sbagliare nemmeno una volta. Parcheggio davanti all’ingresso ed entro a prendere le stanze. Ovviamente sono conciato malissimo: vestiti strappati e impolverati, cappello da camionista sbiadito, strato di polvere su tutte le parti del corpo visibili e puzza che annuncia il mio arrivo. Il portinaio si rifiuta di aprirmi la porta e la receptionist, nella lingua locale, mi dice di andarmene giacché, in quel luogo di classe, non sono ben accetti gli accattoni. Io sorrido e sfodero la prenotazione. Lei continua a guardarmi con diffidenza e, controvoglia, mi da le chiavi delle camere. Torno fuori a scaricare la macchina e la parcheggio dove mi viene indicato: nell’angolo più buio e lontano del cortile, ben lontano dai suv e dalle macchine di lusso.
Saliamo nelle camere a prepararci e, alle 23:30, andiamo a cena al ristorante Турандот (Turandot) dove ci saziamo con alcuni dei migliori piatti cinesi della nostra vita. Infine, ben oltre l’una di notte, andiamo a dormire.
Lunedì 25 agosto ’14, Almaty – Mongol Rally 2014
Mi sveglio a metà mattina e mi metto a sistemare l’attrezzatura fotografica. Pulisco le macchine, scarico le foto e faccio tutti i backup del caso. Aggiorno i social e il blog e mi scarico i quotidiani italiani. Aspettando il completamento del download faccio una doccia e poi scendo nel bar dell’albergo col computer. Di Alberto, ovviamente, nemmeno l’ombra. Faccio colazione con cappuccino e brioche leggendo i giornali e chiacchierando con gli altri avventori dell’albergo.
Verso l’una faccio chiamare Alberto per scendere a pranzo. Ci dirigiamo verso il centro città, poi giriamo a sinistra ed entriamo in una strada commerciale. C’è una specie di mercato permanente e ai bordi della via non ci sono che negozi. Molti di questi sono o di catene e marchi internazionali o sono spiccatamente di ispirazione occidentale. Decidiamo di mangiare della carne e entriamo in un ristorante a tema “cowboy”: il personale è vestito a tema, le pareti sono di legno, vi sono corna di mucche ovunque, le tovaglie sono di cuoio e il menù è stereotipicamente americano. Ordiniamo dei cheesburger e della coca-cola.
Dopo pranzo ci dedichiamo alla spesa. Prima compro le forbici per la barba in un supermercato poi andiamo in una libreria a comprare materiale d’intrattenimento. Prendiamo un libro a testa, un cd di musica folk kazaka (il più economico) e passiamo più di un’ora nel reparto dei lego a chiederci se ci avrebbero fatto storie in frontiera se avessimo avuto con noi un incrociatore stellare da più di mille e cinquecento pezzi. Alla fine ci convinciamo che non vale la pena rischiare di lasciarlo alle guardie di frontiera e, per consolarci, ci compriamo una scatola di pastelli.
Tornati in albergo Alberto va a fare un pisolino mentre io voglio girare un po’ la città. Siccome oggi le ambasciate sono chiuse, posso sfruttare tutta la giornata a mio piacimento. Chiedo alla receptionist cosa mi consiglia di visitare nei dintorni, mi faccio segnare il tragitto su una cartina, prendo la macchina fotografica e mi dirigo verso l’avventura.
La prima fermata è il Parco Panfilov. Esco dall’hotel, giro a sinistra e poi prendo il primo prospect verso destra. Scatto qualche foto agli edifici di stampo prettamente sovietico (così sembra) e in meno di cinque minuti ci sono.
Percorro tutto il parco e all’altra estremità c’è la Cattedrale Ortodossa dell’Ascensione di Almaty. Entro all’interno per visitarla, scatto qualche foto di nascosto, compro dei souvenir e poi esco.
Alla sinistra della chiesa c’è una piazza con monumenti dell’epoca sovietica.
Esco dal parco e mi dirigo verso una strada pedonale che attraversa, tra le altre cose, un centro commerciale.
Successivamente mi dirigo verso la Moschea Centrale di Almaty. Supero un isolato in cui vi sono degli scrivani lungo tutto il marciapiede, mi faccio sparare da dei bambini che giocano con delle armi finte e finalmente scorgo le cupole d’oro della mia destinazione.
Dopo aver sbagliato ingresso ed essere entrato in una specie di scuola religiosa, trovo l’entrata. Mi tolgo le scarpe e mi siedo in un angolo a fare foto, a riposarmi e a guardarmi intorno. Vengo avvicinato da alcune persone che mi invitano a pregare ma io declino adducendo come scusa una ferita sportiva. Dopo circa una mezz’ora esco e mi dirigo a destra, verso la periferia.
Scatto qualche foto a un mercato improvvisato a un incrocio, ammiro la statua equestre di Raiymbek Batyr, un famoso guerriero kazako e poi prendo un taxi abusivo e torno in albergo.
È ora di cena quindi andiamo al Guns ‘n Roses Pub di Almaty, in memoria della nostra permanenza da Atyrau (che sembra lontana anni e non settimane). Mangiamo prima all’interno del locale poi ci spostiamo per il dolce sulla terrazza da cui si gode la vista di un parco, di un fiume e addirittura di una fontana. Decidiamo il piano per i prossimi giorni: per prima cosa proviamo a ottenere un nuovo visto per la Russia per Alberto, innanzitutto attraverso l’ambasciata italiana, poi tramite quella russa. Se non dovessimo avere successo, Alberto prenderà un volo fino alla Mongolia da dove proseguiremo di nuovo assieme.
Martedì 26 agosto ’14, Almaty – Mongol Rally 2014
Oggi la sveglia è puntata per l’impossibile ora delle otto di mattina perché dobbiamo andare al consolato russo per elemosinare il rinnovo del visto di Alberto per la Russia. Ancora rallentati dal sonno ci incontriamo nel bar dell’albergo per fare colazione con il buon caffè che il gentile barista ci prepara e con la prole che nascerebbe dall’accoppiamento di un muffin all’uvetta, di una brioche integrale e di un panzerotto al montone e cipolle. Per digerire prendiamo un taxi e ci dirigiamo verso gli uffici consolari russi a una ventina di minuti di distanza. Arriviamo qualche minuto prima delle nove e c’è giù una coda di una cinquantina di persone. Ci avviciniamo alla porta per chiedere se bisogna prendere un biglietto o qualcosa del genere e la guardia ci risponde bisognava prenotarsi negli scorsi giorni e che chiamano dall’interno tramite un interfono. Siccome l’apertura settimanale del consolato al pubblico avviene solamente il martedì e non possiamo aspettare un’altra settimana per richiedere il visto, approfittiamo della prima volta che la porta si apre per fare entrare delle persone chiamate, ci infiliamo con nonchalance e ci mettiamo in coda al metal detector della guardiola interna all’edificio come se niente fosse. Abbiamo in pratica appena fatto irruzione in un consolato russo. Il militare a guardia della porta d’ingresso interna che porta agli uffici ci fa segno di avvicinarci per la registrazione e quando controlla sulla sua lista i nostri nomi ovviamente non li trova. Prima che riesca a chiamare i rinforzi per sbatterci fuori dal suolo russo lo convinciamo a farci passare spiegandoli che dobbiamo solo richiedere un visto e che non possiamo perdere altro tempo in territorio kazako. Divertito dal mio russo maccheronico e dalla nostra mancanza di buon senso verso la nazione più potente della terra (Пролетарии всех стран, соединяйтесь!) ci permette di entrare sotto la sua responsabilità. Ci fa però promettere di non portare dentro pistole, coltelli o altre armi e di non provare a fare attentati. Noi a malincuore gli diamo la nostra parola d’onore di giovani proletari e oltrepassiamo la porta verso un mondo migliore fatto di speranza e opportunità.
Entriamo quindi in uno stanzone senza finestre con al centro un enorme tavolo quadrato con una dozzina di sedie intorno. Su tre pareti si aprono degli sportelli protetti da spessi vetri antiproiettile mentre volantini e poster di propaganda ricoprono tutte le superfici visibili e un televisore sintonizzato su un canale moscovita di notizie sta trasmettendo, a causa del fuso orario, il telegiornale della sera prima. Sembra che nella capitale dell’impero si preannunci una settimana molto afosa. Individuiamo lo sportello adibito al rilascio e al rinnovo dei visti e ci mettiamo in coda.
Bisogna a questo punto fare un excursus demo-etno-antropologico sul rapporto tra la popolazione kazaka (e in particolare quella di Almaty) e la raffinata arte di fare la coda. Nei continenti occidentali, certamente converrete con me, si considera il centro di massa di ogni persona per stabilire la sua posizione in una folla tendente a uno scopo, sebbene disordinatamente. Cosicché si può certamente fare fede alle coordinate spaziali dell’ombelico di ciascuno per stabilire la collocazione e l’ubicazione ordinale del suo possessore nella fiumana umana. Nel grandioso stato del Kazakistan questo non avviene ma si applica il metodo dell’appendice, derivato dalle grandiosi gare equestri delle popolazioni nomadi che si insediarono tempo addietro nelle steppe della zona. Questa metodologia di ordinare una coda introduce una componente ludica e aleatoria che non può che rallegrare le folle in attesa in quanto l’epicentro dell’attenzione passa dal centro di massa, punto non molto mobile nella calca e nella ressa proprie di una vera coda, a una qualsiasi appendice direttamente controllabile dal suo possessore. Questo significa che anche una mano, un piede e la punta di un capello (ma non oggetti inanimati, si faccia attenzione), se situati davanti a tutte le appendici di un’altra persona in coda, comporta il suo superamento da parte del possessore della mano, del piede o del capello, anche se, considerato col metodo del centro di massa, sarebbe in una posizione inferiore. Introduco ora un’altra regola: la posizione si cristallizza nel momento in cui viene chiamato il primo in linea della coda. Bisogna pertanto cercare di cogliere gli indizi involontariamente emessi dalla persona addetta dire il fatidico “il prossimo” (Следующий) per essere posizionati nel modo migliore possibile alla fine della frase.
Siamo pertanto in coda per richiedere il rinnovo del visto di Alberto per entrare in Russia prima della nostra ultima nazione, la Mongolia, e ci saranno dieci persone prima di noi. Il tempo scorre ozioso, noi leggiamo, scriviamo cartoline o fissiamo lascivamente le giovani sovietiche, fino a che arriviamo terzi in linea. Da questo momento inizia il gioco della coda. Immediatamente il secondo riesce a superare il primo con un abile colpo a sorpresa della mano sinistra che segue una meravigliosamente eseguita finta di polso destro e passa primo in fila. Il precedente primo diventa quindi secondo e si posiziona davanti a noi. Con nostra sorpresa però il quarto, ovvero la persona dietro di noi, riesce a superarci passando terzo. Ora che l’ex secondo è allo sportello è fuori dalla competizione e pertanto noi rimaniamo terzi, essendo stati superati da una persona. A questo punto elaboriamo una strategia; stabiliamo di non superare nessuno perché abbiamo promesso alla guardia di non provocare problemi, ma siamo decisi a non farci superare a nostra volta. Alla chiamata seguente Alberto si mette molto a distanza dietro di me e pertanto non permette a nessuno di superarci (in quanto quando due persone fanno la fila insieme contano come una sola), il secondo non riesce a superare il primo e così diventiamo secondi in fila con davanti a noi solo l’individuo che ci aveva superato. Passano dieci minuti che sembrano usciti dalla scena iniziale di “C’era una volta il west” di Sergio Leone quando finalmente l’impiegato dietro al vetro antiproiettile dello sportello posa il timbro e si prepara a chiamare il primo della fila. Alberto, che si era accovacciato, si alza di scatto a bloccare tutti i tentativi di sorpasso dalle retrovie colpendo ogni appendice sporgente dalla massa in coda. Io, con una mossa ninja, batto un colpo sulla spalla destra della persona che ci aveva superati poco prima e lui, distratto dal telegiornale alla televisione, si gira a vedere chi stia richiedendo la sua attenzione. Io mi scanso verso sinistra col piede destro e facendo perno col sinistro faccio un piroetta in senso antiorario e mi posiziono davanti a lui senza concedergli alcuna possibilità di reazione e decreto la sua sconfitta definitiva consegnando il passaporto di Alberto e tutti gli altri documenti all’impiegato.
Dall’altra parte del vetro c’è un signore di una quarantina di anni con il volto bruciato dal sole (e dalla vodka) incorniciato da una profonda calvizie che gli dà un’aria immediatamente simpatica. Il quadro viene poi completato da una camicia a quadretti a maniche corte abbinata a un’improbabile cravatta con fantasie rese illegali dal Patto Atlantico. Appena gli chiediamo se può rinnovarci il visto inizia a controllare tutti i documenti che abbiamo prodotto emettendo sempre suoni di approvazioni e vistosi segni affermativi col capo. Quando siamo quasi sicuri che ci darà l’agognato timbro lui alza la testa, ci guarda per un secondo e poi dice che non possiamo rinnovare il visto lì, ma che tutti i documenti sono a posto. Chiediamo spiegazioni e lui risponde che il visto russo può essere richiesto solo nel paese di residenza oppure per rientrare in detto paese. Cerchiamo di convincerlo che dobbiamo rientrare in Russia per tornare a casa ma lui ci dice che siccome ci sono altre strade per tornare in Italia non può concederci il permesso di rimettere piede sul territorio della Madre Russia. Vorremmo provare con un piccolo presente di dollari statunitensi ad addolcirlo ma temiamo che corrompere un funzionario sovietico all’interno di un’ambasciata possa essere compromettente. Lui però di punto in bianco si alza, ci saluta e se ne va dicendo che il suo turno è finito. Arriva però una gentile signora sovrappeso e rubiconda che in un perfetto francese ci spiega che quello che ci ha detto il suo collega è corretto e che quindi Alberto deve prima di entrare in Russia, tornare in Italia e da qui richiedere il visto. Alberto prova a sedurla mostrando scoprendo una timida spalla ma lei rimane glacialmente indifferente alle avance del giovane disposto a tutto pur di ottenere ciò che brama. Delusi ma non vinti lasciamo il consolato russo decisi a trovare una soluzione.
Prendiamo un altro taxi per tornare in albergo dove, nella calma del dehors del bar, armati di computer e cellulari, cerchiamo una soluzione per portare Alberto all’interno dei confini mongoli. Dobbiamo evitare la Russia quindi decidiamo di cercare un volo da Almaty fino alla città mongola dotata di aeroporto più vicina al confine. Contento dei progetti elaborati decido di andare a pranzare al ristorante cinese dell’albergo. Alberto acconsente a condizione di andare quella sera a mangiare indiano.
Nel primo pomeriggio, dopo la siesta di rito, ci dirigiamo presso una vicina agenzia di viaggi per prenotare un volo adatto. Uscendo dall’albergo prendiamo a destra verso la collina e quindi, alla prima traversa, giriamo verso sinistra in una stradina privata dove, nel secondo edificio sulla sinistra, c’è l’agenzia di viaggi che ci hanno consigliato alla reception dell’hotel. Appena entrati ci accoglie l’ambiente più kitsch del mondo. L’intero ufficio è stato dipinto nelle tinte del rose, le pareti sono coperte di scaffalature stracolme di souvenir pacchiani e brutti articoli per turisti e dove finiscono i ripiani inizia una distesa di poster anni novanta di località esotiche. All’ingresso, a sinistra e a destra ci sono due scrivanie occupate da giovani e rampanti operatrici turistiche, proseguendo, sulla destra c’è un acquario tropicale, poi un’altra posizione di lavoro e, infine, in fondo alla lunga stanza, c’è il tavolo della direttrice dell’attività commerciale. Ci viene fatto segno di accomodarci di fronte a quest’ultima scrivania e di attendere l’arrivo della sua proprietaria. Dopo una paio di minuti passati sfogliando brochure pubblicitarie sull’Italia, ci si presenta dinnanzi una procace donna di mezza età di etnia russa che, dopo essersi sistemata la permanente e la scollatura, ci chiede come può aiutarci. Siccome Alberto è distratto le dico che vorremmo un volo per la città mongola più vicina al confine occidentale con la Russia in quanto vorremmo guidare attraverso la Mongolia fino a Ulan Bator e che non possiamo passare in Russia. Lei annuisce con fare di assenso, digita qualcosa al computer e ci dice che non esistono voli così e che l’unica possibilità è atterrare a Ulan Ude e da qui continuare verso Ulan Bator. Io le faccio gentilmente notare che Ulan Ude è in Russia e che quindi Alberto avrebbe trovato dei problemi anche a uscire dall’aeroporto in quanto sprovvisto di visto. Ci vengono quindi proposte delle alternative ma tutte prevedono l’arrivo in Russia. Alberto, che ha intanto perso la pazienza, si alza e si dirige verso il grande mappamondo al lato della scrivania e inizia a elencare tutte le città mongole che potrebbero avere uno scalo aereo chiedendo di cercare un volo per quella destinazione ma l’unica soluzione che si trova è un volo con tre scali verso Ulan Bator dal costo proibitivo. Noi allora ringraziamo e diciamo che torneremo l’indomani per prenotarlo ma in realtà stiamo mentendo.
Usciti dall’agenzia di viaggi torniamo verso l’albergo, ci sediamo al bar e riprendiamo le nostre ricerche. Effettivamente i voli per le città minori della Mongolia sono rari e, in ogni caso, non ci sono più posti liberi per tutto il mese. La soluzione migliore che troviamo è un volo per Ulan Bator con scalo a Seoul con partenza la mattina successiva e l’arrivo in serata. Lo prenoto e poi passiamo a progettare il mio viaggio. Decido di partire l’indomani all’alba e di dirigermi verso Semej, dove spero di arrivare in serata, quindi il giorno successivo entrare in Russia e, seguendo la strada trans-siberiana, passare per Ulan Ude e entrare trionfalmente a Ulan Bator dopo una decina di giorni di viaggio. Alberto mi aspetterà nella capitale mongola e insieme andremo al traguardo del Mongol Rally. Vado alla reception dell’albergo per dire che quella sarebbe stata la nostra ultima sera, chiedo di preparami la colazione per le sei di mattina e poi chiedo se secondo loro ci sarebbero stati problemi a rientrare in Russia in quanto all’ingresso in Kazakistan hanno registrato sul documento della macchina due passeggeri. La gentile receptionist chiama un impiegato dell’albergo che ha un fratello che lavora al confine nord tra Kazakistan e Russia. Gli telefoniamo e lui conferma che non ci dovrebbero essere problemi ma per sicurezza mi fa preparare un documento in cui si garantisce per me (o almeno spero sia così). Ringrazio Rebecca e salgo in camera per preparami alla cena al ristorante indiano che Alberto ha scelto.
Poco prima delle sette e mezza ci ritroviamo al bar, prendiamo un taxi al volo e ci facciamo portare al ristorante ma lo troviamo chiuso per ristrutturazione. Siccome Alberto vuole per forza mangiare indiano andiamo alla ricerca di un wifi aperto per trovare un altro ristorante. Così facendo percorriamo parecchi isolati quando stremati dalla fame, fermiamo un taxi e ci facciamo portare al pub più vicino. Con nostro immenso stupore il Shakespeare Pub è un ristorante indiano. Mangiamo degli hamburger e zuppe indiane guardando Kaddabi, uno sport indiano simile alla palla prigioniera in cui quando si attacca non si può inspirare e bisogna urlare il nome dello sport. Dopo cena facciamo una passeggiata per tornare all’albergo e poi ci salutiamo. Le nostre strade si separano per un po’ e non è detto che ci rincontreremo.
Mercoledì 27 agosto ’14, da Almaty a Semey – Mongol Rally 2014
Dopo un paio di ore di sonno agitato, la sveglia suona alle cinque e mezza di mattina e mi preannuncia una lunghissima giornata: devo arrivare a Semey. La strada da percorrere è lunga circa 1’200 chilometri e le mappe di google mi danno un tempo di percorrenza intorno alle 15 ore. Avendo imparato a diffidare dell’attendibilità della stima della durata del viaggio, posso immaginarmi di non arrivare a destinazione prima di una ventina di ore, sperando quindi di giungere a destinazione prima dell’alba e di non perdere un giorno sul programma già dalla prima tratta. Preparo le valigie, mi vesto e scendo nella hall dell’albergo dove c’è ancora la receptionist che assomiglia a Rebecca di Pawn Stars con cui avevo parlato il pomeriggio prima per farmi preparare colazione e pranzo al sacco. Dalla sua faccia, più addormentata della mia, capisco che non ha ancora finito il turno, che ormai dura da almeno dieci ore. A differenza di quanto successo all’arrivo, il personale dell’hotel si comporta in maniera molto disponibile: il portiere va a prendere la Panda e mi aiuta a caricarla, la receptionist, dopo avermi dato il cibo, mi abbraccia e mi augura buona fortuna. Io esco dall’albergo contento di questi saluti ma, appena prima di entrare in macchina, mi verso il caffè sui pantaloni. La tazza di carta da mezzo litro, in pieno stile americano, mi scivola mentre cerco le chiavi e il liquido scuro e bollente mi inzuppa completamente i pantaloni dandomi un principio di ustione (seriamente, mi sono poi venute anche le bolle). Imprecando amabilmente per il pessimo inizio di giornata, apro la valigia, tiro fuori i pantaloni della tuta, mi tolgo quelli bagnati e, dopo essermi asciugato con l’asciugamano, mi cambio; tutto ovviamente nel bel mezzo del parcheggio. La receptionist, che deve aver visto tutta la scena, esce e trattenendo a stento le risate mi dice di aspettare che va a farmi preparare un nuovo caffè e mi dà un sacchetto per mettere via i pantaloni zuppi. Aspettiamo quindi insieme la nuova colazione sulle panchine intorno a un fontana di fronte all’hotel chiacchierando lei in inglese e io in russo e quando, una decina di minuti dopo, arriva il nuovo caffè, ringrazio e mi metto in viaggio. Sono circa le sei e mezza di mattina e ho evitato il traffico; l’interminabile coda che avevamo incontrato entrando in città non c’è e dirigendomi verso nord non incontro praticamente nessuno, tranne qualche spazzino che pulisce le strade. Una decina di chilometri fuori Almaty mi fermo a fare benzina e colgo l’occasione per mangiare un dei panini preparati dall’hotel bevendo una red bull da 750 millilitri che ho comprato alla stazione di servizio. Il sole alla mia destra sta iniziando a fare capolino da dietro le montagne, la strada è molto buona e percorro spedito la sterminata pianura kazaka. Costeggio a velocità ridotta un lago su cui stanno costruendo una diga in quanto ci sono dei mezzi di movimento terra in mezzo alla careggiata ma subito inizia una specie di autostrada. Di colpo, dal nulla, spunta una specie di Las Vegas: da entrambi i lati della strada ci sono casinò a tema, concessionarie di auto e alberghi pacchianissimi. Facendo affidamento alla mia forza di volontà riesco a non fermarmi e proseguo fino all’ora di pranzo. Verso l’una del pomeriggio faccio sosta in un cantiere in una zona collinare per mangiare i panini e le brioche, per controllare l’auto e per fare telefonare ad Alberto. È arrivato a Seoul dove fa scalo e sta bevendo un cappuccino in aeroporto; racconto contentissimo che la cameriera coreana, dopo avergli fatto un inchino e accarezzato i peli del braccio, gli ha disegnato un cuore con la schiuma.
Riprendo la strada e tutto procede senza intoppi fino a metà pomeriggio. La strada asfaltata decentemente e il tragitto monotono mi permettono di vagare liberamente con la mente cullato dalle dolci melodie del disco kazako comprato ad Almaty. I pensieri si susseguono lenti e pigri senza apparente difficoltà ma non conducono da nessuna parte e sovente si dissolvono in costruzioni assurde o paradossiche. Quando il sole è ormai passato alla mia sinistra da un paio di ore, in un lungo rettilineo in cui viaggio a velocità superiori ai 150 chilometri orari, sento la macchina inclinarsi verso destra. Apro il finestrino per controllare se le ruote dalla mia parte hanno qualche problema, mi sporgo per avere una visione migliore e gli occhiali, a causa del vento, mi vengono strappati dal viso e cadono. Immediatamente, alla cieca, mi fermo e accosto sul bordo della strada, ritorno sui miei passi cercando a tastoni gli occhiali e, a una distanza di un paio di centinaio di metri li ritrovo. Sono molto rovinati, entrambe le lenti sono parecchio graffiate e manca una stanghetta ma non posso fare altro che rimettermeli e continuare. Circa un’ora prima del tramonto mi sto avvicinando alla città di Ayagoz in cui c’è l’unico bivio della giornata quando mi chiama Alberto dicendo che è arrivato a Ulan Bator e che sta aspettando i bagagli. Chiacchieriamo un po’ e quando riagganciamo mi accorgo che ho preso a destra alla biforcazione quando invece avrei dovuto prendere a sinistra e mi sto inoltrando nella campagna kazaka su una strada sterrata con direzione il confine cinese. Giro la macchina e ripercorro a ritroso la strada per tornare al bivio e, al secondo tentativo, prendo la strada giusta. Da Ayagoz ci sono due strade per Semey: la prima, principale, passa per Qallabatau, è trafficata e più lunga, la seconda taglia in mezzo alla steppa e, in teoria, è più corta ma dovrebbe avere un livello di manutenzione inferiore. Siccome devo arrivare a destinazione entro la sera, decido di rischiare e prendere la strada più corta, essendo anche che mi hanno detto di non campeggiare nel nord del Kazakistan perché ci sono branchi di lupi selvaggi. Appena imboccata la strada mi accorgo che la velocità mantenuta per tutto il giorno sarà solo un dolce ricordo. Il manto asfaltato è ricoperto di buche e la pioggia che deve essere caduta nel pomeriggio, non permette di capire quanto siano profonde e pertanto sono costretto a un stressante slalom per non distruggere le sospensione, col risultato che la mia velocità media è inferiore ai 25 chilometri orari. Per un paio di ore non incontro nessuno, tranne che per un’ambulanza, quando, appena prima del tramonto, mi imbatto in una mandria di cavalli selvatici. Siccome è ormai quasi calato il sole e ritardare ancora non importa, mi fermo a fare delle foto. I cavalli sono molto diffidenti e mi devo avvicinare sottovento (non so se funziona anche per i cavalli ma l’ho fatto lo stesso) per riuscire a fotografarli ma nella maggior parte delle foto sono girati nella direzione opposta alla mia.
Faccio anche qualche foto a del muschio e alla macchina non correndo il rischio di farli scappare.
Quando riparto è ormai sceso il buio e nel giro di mezz’ora, anche con le luci sul tetto puntate a trenta gradi a illuminare la strada e con gli abbaglianti perennemente accesi, che fanno sembrare il pandino un’astronave, la visibilità si è ridotta praticamente a zero e, per evitare le buche, sono costretto a procedere a passo d’uomo. Non incontro anima viva per un paio d’ore, tranne che per un paesino chiamato Karaul in cui c’è una specie di festa di paese con delle giostre tristissime, mentre continuo ad addentrarmi nella steppa kazaka. Verso le dieci di sera Alberto mi chiama dal suo hotel di Ulaan Baatar per avvisarmi di essere arrivato sano e salvo e proprio mente parlo con lui mi attraversa la strada una specie di topo-canguro. È delle dimensioni di una lepre, cammina sulle due zampe posteriori che sembrano quelle di un canguro, ha una lunga coda da ratto e la zampe davanti come quelle di un t-rex, è color sabbia e si muove molto velocemente. Glielo descrivo al telefono e lui mi dice che sto di nuovo avendo le allucinazioni. Io concordo nel non escludere questa possibilità in quanto mi era già successo arrivando ad Atyrau, ma in quel caso erano mistiche e religiose. (Da approfondite ricerche è venuto poi fuori che la bestia che ho visto, sebbene non abbiamo tuttora la certezza che fosse reale, esiste veramente in quelle zone ed è il Grande Gerbillo, di cui si riporta una foto in calce).
Verso le undici di sera, come un miraggio, inizio a scorgere l’aura arancione delle luci di quello che non può che essere la mia destinazione del giorno: Semey. Piano piano che mi avvicino il colore si fa più intenso e posso iniziare a distinguere i contorni della città. È incredibile come nel buio più assoluto di una notte senza luna l’inquinamento luminoso sia visibile a una distanza così grande, dalla mia cartina risulta infatti che mancano quasi cento chilometri alla meta. Rinfrancato però dalla prova tangibile dell’avvicinarsi del fine della tappa, metto in loop “Born to Be Abramo” di Elio e Le Storie Tese, spingo sull’acceleratore incurante delle buche dell’asfalto del manto stradale che stanno scomparendo all’approssimarsi alla città e in circa un’ora entro in città dal ponte sud cantando a squarciagola. Mi immetto in una strada con tre corsie per ogni senso di marcia e appena vedo un taxi fermo mi accosto. Chiedo al tassista se sa dov’è l’albergo Nomad (che ho trovato sulla guida) e se mi ci può portare e lui risponde di sì. Parte con me che lo segue nella Panda, continua sulla strada a sei corsie e dopo una decina di minuti entra in un piazzale di una casa popolare e mi fa segno di parcheggiare lì. Prendo la guida, scendo dalla macchina, la chiudo perché la zona non mi sembra rassicurante, e poi lo seguo su per una breve gradinata e dentro l’edificio. Ci avviciniamo a una specie di reception dove mi presenta alla signora seduta dietro al bancone e mi dice che devo prendere una stanza lì perché è economico ma molto buono. Gli spiego, mentendo, che non posso pernottare in quell’albergo e che devo assolutamente andare all’hotel che gli ho indicato perché lì c’è mio fratello che mi aspetta e non ha soldi. Il tassista non sembra convinto della mia spiegazione ma, controvoglia, acconsente a portarmi all’albergo che gli avevo indicato in primo luogo. Credo che avesse interessi economici a farmi prendere una camera nell’albergo in cui mi aveva portato. Risaliamo lui sul taxi e io sul pandino e prendiamo la strada per il centro di Semey. La prima fermata è un albergo ormai chiuso da tempo, proviamo a entrare ma le porte sono sbarrate con dei pannelli di compensato e le finestre sono tute state rotte. Mi dice che credeva fosse questo l’albergo che cercavo. È ormai mezzanotte, sono stanco, inizia a fare freddo e quindi decido di farla breve: chiamo l’albergo e dico alla receptionist, in inglese, che le avrei passato il mio tassista per fargli spiegare come arrivare al loro indirizzo. Annuisce mentre ascolta e poi mi ripassa il telefono facendomi segno di seguirlo ma appena ripartiamo mi accorgo che iniziamo a girare in tondo attorno al parco centrale della città. Si ferma poi in un albergo chiedendomi se è quello che volevo io; gli dico di no, lui si fa dare la guida ed entra per chiedere indicazioni, penso. Quando riesce ripartiamo e facciamo di seguito cinque alberghi uno peggiore dell’altro e ovviamente nessuno di essi è il Nomad Hotel. All’ultimo mi dice che non sa dov’è l’albergo perché è arrivato in città da un paio di giorni per dare il cambio a suo cugino che è dovuto tornare in campagna per affari non meglio precisati e che quindi non gli devo niente. Io lo ringrazio, annuncio che cercherò eroicamente l’albergo da solo e gli elargisco una mancia di 300 rubli e appena riparto in solitaria, dopo il primo angolo, ecco apparire la bruttissima facciata sovietica dell’Hotel Nomad (qui in una foto di repertorio).
È ormai quasi l’una di mattina quando, ridotto come uno straccio, entro in albergo per prendere una camera. Espletate le mai semplici formalità per la registrazione in un hotel dell’ex area sovietica, il portinaio mi aiuta a scaricare la macchina e poi me la fa parcheggiare nel cortile interno. Salgo quindi in camera per darmi una veloce rinfrescata e mettermi dei vestiti puliti e vado al ristorante al primo piano per cenare. Nella sala oltre a me c’è solo un gruppo di uomini d’affari russi parecchio ubriachi che stanno guardando una partita di calcio della premier, non capisco se in diretta o no. Mangio velocemente la mia bistecca (cattiva) e poi torno in camera. Preparo la vasca per fare il bagno e dal rubinetto, credo per la ruggine nelle tubature, esce un’acqua talmente rossa che sembra del Sanbittèr e quando ho finito il bagno e mi sono asciugato, puzzo di ferro. Verso le due vado finalmente a dormire.
Giovedì 28 agosto ’14, da Semey a Barnaul – Mongol Rally 2014
Mi sveglio prima ancora del suono della sveglia e, con la luce dell’alba che filtra dalle tende chiuse male, scorrendo con lo sguardo la stanza d’albergo mi rendo conto dello sporco che ho lasciato al mio passaggio.
La valigia e lo zaino con l’attrezzatura fotografica sono coperti da due dita di polvere rossa della steppa kazaka, i miei vestiti sono ormai di un colore unico e nel letto e sul cuscino, nonostante il bagno della sera precedente, c’è una sindone polverulenta a mia immagine e somiglianza. Mi alzo, cerco di pulire alla meglio le mie cose, faccio un bagno al gusto ruggine, mi vesto e poi vado a fare colazione al ristorante dell’albergo.
Mangio dei muffin integrali, delle tartine col miele, bevo del sempre ottimo tè e poi concludo il pasto con delle appetitose crêpes alla carne macinata e prezzemolo. Scendo quindi al computer nella hall per controllare le email dai generosissimi donatori (ancora grazie), per ripassare il percorso della giornata e per prenotare la camera a destinazione. Oggi devo percorrere circa 450 chilometri in statale, il primo quarto in terra kazaka e il restante in Russia; prevedo pertanto di guidare per poco meno di 6 ore senza contare il tempo perso per espletare le formalità doganali. Chiacchiero un po’ con una coppia di anziani russi nella hall dell’albergo bevendo del tè e, prima liberare la camera, essendo l’ultimo mio giorno in Kazakistan per chissà quanto tempo, compro un bel po’ di souvenir locali, tra cui una divisa ufficiale delle Olimpiadi di Londra 2012.
Dopo aver caricato la macchina, saldato il conto e bevuto l’ennesima tazza di tè, allo scoccare delle undici e mezza di mattina mi rimetto in marcia in direzione nord, verso il confine russo. Appena esco dalla zona abitata di Semey, la strada inizia a perdersi in mezzo a un bosco di sempreverdi fittissimo per poi, dopo una ventina di chilometri, aprirsi nella più classica delle steppe. La guida è semplice e abbastanza noiosa mentre la macchina corre (troppo) veloce sulla strada ben asfaltata. Nonostante vi sia un principio di tendenza dello sterzo a puntare verso sinistra, incolpo le innumerevoli riparazioni, non me ne curo e proseguo la mia scampagnata. Passo nell’insediamento scarsamente abitato di Borovoye (Боровое), che sembra un set di un film western di Leone, e supero una fila di auto che hanno rallentato improvvisamente e che ora procedono a una velocità rispettosa dei limiti. Non mi faccio domande su questo peculiare comportamento da parte dei mai rispettosi del codice della strada guidatori kazaki e proseguo di gran carriera verso il confine. Un paio di centinaia di metri fuori dai confini del centro abitato la risposta si palesa di fronte a me sotto forma dapprima di una volante della polizia e poi, avvicinandomi, nel braccio teso delle forme dell’ordine a voler fermare la mia corsa. Iniziando a realizzare di essere passato in una zona con velocità massima consentita di 50 chilometri all’ora a, probabilmente, almeno il doppio di tale valore, inizio a preparare la solita banconota da 10 dollari nel passaporto per fare sì che la giustizia sia un po’ meno cieca del solito. Rallento, accosto sul ciglio della strada, scendo dalla macchina e aspetto che si avvicini il poliziotto. Mi dice che andavo a 87 chilometri all’ora invece che a 50 (valore decisamente inferiore alle mie più rosee previsioni) e che devo seguirlo alla centrale di polizia di Borovoye dove mi verrà ritirata la patente e inflitta una multa salatissima. Io mi fingo sorpreso delle sue minacce ma il militare imperterrito mi dice di avvicinarmi alla sua macchina dove mi mostra la velocità registrata tramite l’autovelox sullo schermo del suo computer portatile e mi spiega che non può fare nulla per aiutarmi. Io gli porgo il mio passaporto contenente il foglietto corruttivo e, appena lui ne vede la copertina, me lo strappa di mano e, ignorando completamente la mazzetta, apre alla prima pagina e urla sorpreso “italiano!”. Io lì per lì non capisco ma, dopo avermi reso il passaporto, accende l’autoradio dell’auto di pattuglia da cui inizia a suonare nientemeno che il bisbetico domato Adriano Celentano nella sua più classica interpretazione de “Il ragazzo della via Gluck” con l’inconfondibile inizio strumentale. Senza pensarci su attacco a cantare la prima strofa “Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck…” e lui, senza esitazione, si accoda vocalizzando all’unisono ogni verso fino alla fine sconsolata di “…e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba…” prima della coda finale. Quando inizia il brano successivo (“Sei rimasta sola”) siamo ormai compagni di canto e pertanto di rende il passaporto, mi augura buon viaggio, mi riaccompagna alla macchina e mi dice che sono libero di ripartire ma di guidare un po’ più lentamente nei centri abitati. Io ringrazio e mi rimetto in cammino riconoscendo che mai avrei pensato che Celentano avrebbe potuto salvarmi da una situazione potenzialmente molto spiacevole nelle distese del nord del Kazakistan (oltre che in Uzbekistan).
Verso l’una e mezzo del pomeriggio avvisto, alla fine di un interminabile rettilineo, la sbarra che indica l’inizio della zona di frontiera. Mi avvicino e sono solo il terzo in coda. Scendo dalla macchina e mi affaccio alla guardiola per vedere quale sia la procedura uscire dal Kazakistan. Dentro ci sono due militari che mi porgono un foglio da compilare con le mie generalità e con i dati della macchina. Quando lo riconsegno chiedo se per caso vi sia il parente del dipendente dell’albergo di Almaty che aveva telefonato in frontiera ma mi rispondono che è appena andato via in quanto il suo turno finiva alle 13. Sono però sorpresi di vedermi lì così presto in quanto è la prima volta che vedono qualcuno fare quel tragitto in così poco tempo in macchina. Io saluto e torno in macchina a mangiare il pranzo al sacco che avevo preso dalla colazione in albergo. Dopo una breve attesa mi è permesso l’ingresso nel complesso frontaliero e mi viene indicato di parcheggiare di fronte all’edificio col tetto blu della fotografia seguente per il controllo della macchina. Per prima cosa mi fanno aprire il cofano e la guardia osserva il motore con grugniti di assenso, poi controllano le quattro gomme e infine passano all’esame dell’interno del pandino. Apro tutte le valigie, mostro l’attrezzatura fotografica e accendo il computer, successivamente mi fanno mettere per terra tutta l’immondizia lasciata da Alberto sul pavimento del posto del passeggero per esaminarla meglio e, per ultimo, accendono l’autoradio e la radio CB per assicurarsi che non sia una spia. L’ufficiale mi fa segno di ricaricare tutto sulla macchina, mi comunica che non sono una spia, mi firma i documenti per l’uscita dal paese, mi saluta e mi indica di recarmi presso l’edificio seguente per adempiere alle formalità richieste per entrare in Russia. Parcheggio davanti all’ingresso e, con tutti i documenti diligentemente sotto il braccio, mi dirigo alla porta. Con mio massimo disappunto vedo che davanti a me si snoda una coda di una ventina di persone. Siccome prima di me non è entrato nessuno per almeno un’ora, deduco che non sarà una breve attesa. Verso le tre del pomeriggio torna l’addetto ai passaporti dalla pausa pranzo e oziosamente chiama il primo della fila. La coda avanza lentamente ma poco prima delle quattro del pomeriggio ho il timbro di ingresso sul passaporto e posso avanzare allo step successivo: il controllo della macchina e l’approvazione del foglio di deklaratia. Riprendo la macchina e parcheggio nell’area adibita ai controlli. Fortunatamente mi riconoscono valido quanto dichiarato per il Kazakistan e pertanto i controlli sono pressoché delle formalità. Alle quattro e mezza del pomeriggio sono pertanto in Russia e riprendo il viaggio a tavoletta.
Arrivo a Barnaul in serata inoltrata, percorro l’arteria principale, giro verso destra in un viale scarsamente illuminato e poi entro nella via che porta alla mia destinazione: un affittacamere siberiano chiamato Fedorov ApartHotel.
Parcheggio la macchina, scarico i bagagli e poi mi avventuro oltre le tre porte a tenuta stagna nei corridoi dell’edificio.
Mi indicano di andare al terzo piano dove trovo una gentile vecchina (che poi magari avrà avuto quarant’anni, ma tanto ha detto che non legge questo blog quindi, ai fini puramente narrativi, sarà una vecchina) ingobbita dall’età e vestita nella classica uniforme da nonna italiana: ciabatta con le dita che toccano per terra davanti, vestito a fiori a mezze maniche, grembiule consumatissimo e foulard in testa. Per non dimenticare il pentolone di stufato borbottante sul fornellino a gas. Mi presento, dico che ho prenotato una stanza e lei mi fa sistemare. L’affittacamere, diversamente da quanto pubblicizzato sull’internet, è una vecchia casa sovietica (il tipico квартира) in cui subito di fronte all’ingresso c’è la cucina della custode/proprietari e sul lungo corridoio si affacciano una decina di camere che condividono a coppie il bagno. La mia stanza è arredata semplicemente ma è molto accogliente, il letto a molle è appoggiato sotto la finestra che dà sulla città e che è formata da un doppio strato di vetri con un intercapedine di circa un metro, mi spiegano che i muri così spessi servono a proteggersi delle temperature siberiane. In effetti, sebbene sia agosto, il termometro segna solo qualche grade al di sopra dello zero. Mi riposo per una decina di minuta e poi torno in cucina per chiacchierare un po’ e per chiedere suggerimento per il posto in cui cenare. La vecchina sembra dispiaciuta di non potermi offrire quanto sta cucinando ma, mi spiega, è per il pranzo dell’indomani in quanto il venerdì viene suo nipote a farle visita. Mi consiglia però di andare a cenare al Caffè Arabika, l’unico locale aperto ancora a quell’ora della notta dove si possa mangiare. Chiama pertanto un suo parente che guida i taxi e mi ci fa portare.
Il locale, sebbene sia arredato in maniera molto occidentale e potrebbe benissimo figurare in una serie televisiva statunitense, offre una cucina dalle molte ispirazione, ma sempre dalla spiccata sensibilità siberiana. Ordino quindi per primo una zuppa di carne, poi una bistecca e infine il dolce della casa, tutto innaffiato da dell’ottimo cappuccino che le gentilissime e disponibilissime cameriere continuano a portarmi. Finito che ho di cenare, ed essendo l’unico cliente, mi fermo a chiacchierare con le ragazze che lavorano lì. Mi raccontano brevemente la storia della città, di come sia difficile vivere in Siberia ma che stanno tutte studiando all’università e che sperano, un giorno, di andare a vivere in un luogo più caldo. Io racconto del mio viaggio e faccio loro vedere anche le foto che ho scattato fino a quel momento. Rimangono deluse quando le informo che il pandino è rimasto parcheggiato davanti all’albergo. Ben oltre mezzanotte prendo un taxi e torno all’affittacamere a dormire.
Venerdì 29 agosto ’14, da Barnaul a Irkutsk, giorno 1 – Mongol Rally 2014
La sveglia suona alle sei e mezza, faccio colazione nella stanza della vecchina che gestisce l’affittacamere (in sua compagnia) con caffè e fette biscottate e, dopo aver caricato la macchina, alle sette sono di nuovo in marcia. Mi dirigo verso nord per riprendere la statale che attraversa tutta la Russia, da Mosca a Vladivostok. Faccio il pieno, supero un passaggio a livello abbandonato e, prendendo una strada sulla destra che mi fa risparmiare parecchi chilometri, mi addentro in un bosco sulla classica strada russa a due corsie. Viaggio tutto il mattino senza nessun evento particolare e verso mezzogiorno decido di fermarmi a pranzare in quello che sembra un fast food sul ciglio della strada. Parcheggio nello spiazzo attiguo al ristorante (mi accorgo poi che è una vecchia pesa per i camion ormai in disuso), faccio un rapido controllo alla macchina e, dopo aver attraversato le doppie porte d’obbligo in Siberia, entro nel localee e all’interno sembra di essere in una replica Arnold’s. Dietro al bancone ci sono affissi i menù tra cui scegliere. Si compongono tutti grossomodo di un panino e di una bibita; le maggiori differenze stanno nei panini ma a me, basandomi sulle foto e non essendo troppo pratico di ingredienti russi, sembrano tutti uguali. Decido di andare sul sicuro e prendo quello che viene definito il “classico” e aggiungo anche un caffè al menù. Ora la preparazione è un po’ particolare. Iniziano con il caffè, fatto ovviamente con acqua calda di un bollitore e la polvere solubile. La bibita invece viene versata nel bicchiere di plastica da una lattina che era già aperta. Infine il panino viene tirato fuori da un freezer e, ancora nella sua confezione, messo a scongelare in un forno a microonde. Tutto questo avviene in bella vista del cliente e addirittura il forno è brandizzato con il logo e il nome del locale, come se fosse l’ultimo ritrovato tecnologico. Quando finisce il conto alla rovescia, la gentile cameriera estrae il panino dal forno e me lo consegna ancora incartato. Io ringrazio, saluto ed esco a mangiare appoggiandomi sul cofano della macchina. Per mio grande giubilo (ma non sorpresa) il panino è davvero buono; il formaggio abbraccia morbidamente la carne tritata spessa mentre le cipolle danno un tocco di gusto e croccantezza al tutto. L’unico neo potrebbe essere il cetriolo sottaceto che, a causa del suo altissimo contenuto di liquidi, nel formo a microonde ha assunto la temperatura della lava. Mi accorgo solo al momento di bere il caffè che, sebbene sia quasi l’una di pomeriggio di un giorno di fine agosto, io sto indossando una giacca da sci e si vede chiaramente sia il vapore del caffè che il mio soffio che cerca di raffreddarlo. Quando salgo in macchina, controllo il termometro e segna due gradi sopra lo zero.
Mi rimetto in cammino e viaggio tutto il pomeriggio. Poco prima delle 19 mi perdo nella periferia di un paesino e ne approfitto per fermarmi a fare la spesa per la cena e a chiedere informazioni. Vedo un market e vi entro. È uno stanzone con qualsiasi mercanzia immaginabile accatastata su delle scaffalature e in mezzo ci sono anche dei freezer. Prendo del cioccolato, delle bevande energetiche e tre panini scelti a caso tra quelli congelati. Due sono alla carne e uno è al pesce. Mentre la commessa me li fa scongelare (e riscaldare) nel forno a microonde – sembra sia il metodo di cucinare i panini più diffuso in Siberia – chiacchieriamo e mi racconta come sia vivere in quelle zone. Quando tutto è pronto, pago, saluto, esco e risalgo in macchina. Sono ancora decisamente perso (e mi sono dimenticato di chiedere indicazioni) e girovago con la macchina nella speranza di trovare un cartello indicante la statale. Quando vedo un enorme tir, decido di seguirlo e, in neanche dieci minuti, sono sulla strada per Irkutsk, la mia destinazione. Divoro un panino alla carne e poi provo a mangiare quello al pesce ma è troppo cattivo e, dopo averlo riavvolto nella carta, lo poso sul posto del navigatore. Non è ancora sceso il buio quindi procedo spedito. Incontro, sul ciglio della strada e nella direzione opposta, due inglesi (forse scozzesi), partecipanti anche loro al Mongol Rally, mentre sono intenti a esaminare la loro macchina. Mi fermo per chiedere se necessitino di assistenza e mi spiegano che hanno rotto la molla dell’ammortizzatore anteriore destro e che le stanno riparando con del legno sperando di arrivare alla città successiva per poterla sostituire. Sono partiti da Ulan Bator circa una settimana prima e si aspettano ancora venti giorni di viaggio prima di essere di nuovo nel Regno Unito. Faccio qualche foto, prendo i loro contatti e lascio i miei nel caso avessero bisogno e mi rimetto alla guida.
Poco dopo il tramonto mi avvicino alla periferia di Krasnojarsk, una grande città siberiana che conta un milioncino di abitanti. La statale si divide: a sinistra la circumnaviga mentre a destra la attraversa. Non avendo una preferenza definita sul tragitto, rimango sulla destra e mi immetto nell’arteria principale della città. Penso che così facendo taglierò forse un po’ di strada e, se trovo un albergo invitante, potrei anche fermarmi a dormire. La strada scende verso il fiume e si immette sempre più nella periferia della città. Mi accorgo che sto andando nella direzione sbagliata quindi mi fermo in una stazione di servizio e chiedo indicazioni a un poliziotto. Lui, stupito di vedere uno straniero in quella zona della città, mi scorta fino all’imbocco con la strada principale che dovrebbe riportarmi sulla statale. Sono di nuovo da solo da qualche minuto quando, al lato di un incrocio, scorgo quello che sembra un missile. Non credo a quello che potrei aver appena visto quindi mi fermo, faccio retromarcia e torno sullo spiazzo. È proprio un missile. Faccio qualche foto, bevo una bevanda energetica, mangio una paio di biscotti e poi riparto. La strada si inoltra nella zona industriale della città e, quando ormai sono convinto di essermi perso nuovamente, sbuca sulla statale. Dopo un paio di ore di disperato girovagare ho ripreso finalmente la strada giusta. Alla prima stazione di servizio appena fuori Krasnojarsk incontro un team di due americani che vorrebbero dormire lì ma che non riescono a farlo perché un ubriaco li sta importunando. Decidiamo di fare convoglio fino a che non troviamo un posto per piantare le tende. Verso le quattro del mattino arriviamo a una coda di autoveicoli immobili. Scendiamo a vedere cosa sia successo e ci dicono che siamo a un passaggio a livello, che sta passando un treno e che ci vorrà almeno un’ora. Io prendo il cuscino e mi stendo tra i sedili per dormire un po’. Lascio la macchina al minimo, controllo che tutte le portiere siano bloccate, apro i bocchettoni del riscaldamento (fuori la temperatura è sotto lo zero) e, dopo una lunga giornata di guida solitaria nel cuore della Russia, chiudo finalmente gli occhi, con la leva del cambio saldamente conficcata in un fianco.
Sabato 30 agosto ’14, da Barnaul a Irkutsk, giorno 2 – Mongol Rally 2014
Non sono trascorsi nemmeno quaranta minuti da quanto ho preso sonno che la coda di macchine inizia a muoversi. Mi sveglio di soprassalto, controllo l’ora (manca qualche minuto alle cinque di mattina), butto il cuscino nel bagagliaio, mi rimetto al posto di guida e, molto lentamente, mi dirigo verso il passaggio a livello. La macchina degli americani è appena davanti a me e io faccio loro segno che li seguo e che va tutto bene. Appena prima di girare a sinistra, verso nord, per attraversare i binari che corrono da est a ovest, scorgo le prime luci dell’alba sopra agli alberi di fronte a me. Non sembra che manchi ancora molto all’alba ma la strada è ancora buia e si fa fatica a riconoscere dove finisce la strada e dove iniziano i campi.
Dopo un paio di ore di guida ci fermiamo a fare benzina in un vecchio distributore con delle pompe analogiche che hanno ancora, al posto degli schermi digitali, i numeri che girano tipo alla Stazione Centrale. Io faccio il pieno e poi mangio qualche biscotto seduto sul cofano della macchina mentre guardo i due americani che cercano di fare rifornimento. Continuano ad andare dallo sportello dietro cui si protegge dal freddo l’anziana signora che gestisce la stazione di servizio alle pompe di benzina. Provo a capire rimanendo a distanza quale sia il problema quando mi viene fatto segno di avvicinarmi. I miei compagni di carovana mi spiegano che la signora continua a ripetere loro che la carta di pagamento non funziona perché hanno finito i soldi e che sono tuttavia sicuri di avere ancora credito e che quindi credono che sia una specie di truffa. A dimostrazione di questo, porgono per l’ennesima volta la carta alla signora, che digitato il prezzo per il carburante, offre loro il pos per digitare il pin. La transazione viene rifiutata, la benzinaia mi guarda sconsolata e mi chiede se gentilmente posso chiedere agli americani se sono sicuri che il pin inserito sia quello giusto perché è da un quarto d’ora che ripete loro che la transazione viene rifiutata in quanto il codice inserito risulta sbagliato. Io glielo traduco e loro scoppiano a ridere accorgendosi che hanno interpretato erroneamente le urla e i gesti della signora (bisogna ricordare che i russi quando incontrano qualcuno che non parla la loro lingua e che pertanto non capisce quello che gli viene detto non hanno problemi a ripetere la frase di cui non si è colto il significato; solamente che ripetono in russo e ogni volta ad un livello di voce sempre più alto. Così che, come in questo caso, dalla quinta ripetizione in poi uno si ritrova a subire passivamente una conversazione con un russo esasperato che ti urla contro sempre la stessa frase). Digitano quindi il codice giusto, la benzinaia dice loro qualcosa che io non traduco, fanno il pieno e ci rimettiamo in marcia.
Guidiamo verso est sulla P-255 per un paio di ore dopo il sorgere del sole e il pandino continua a sbandare da una parte e devo compensare sforzando lo sterzo dall’altra parte. Verso le nove di mattina ci fermiamo in un bar per camionisti lungo la strada. È un edificio a un piano di mattoni a vista, ha delle pareti spesse parecchie decine di centimetri con doppie porte e doppie finestre per proteggersi dal freddo, il bagno è esterno e appena entriamo veniamo accolti da un umido odore di stufato e da un paio di carine cameriere intente a svegliare un camionista che ha fatto colazione a base di vodka e ravioli (credo fossero Pelmeni – Пельмени) per cercare di rimetterlo sulla strada. Ci accomodiamo a un tavolo ricoperto da una tovaglia cerata con una fantasia floreale e ordiniamo immediatamente tre caffè neri. Sorseggiano il caldo nettare guardiamo la cartina per vedere cosa ci riserva la giornata di guida. Fermiamo una cameriera per chiederle dove ci troviamo esattamente (non abbiamo idea di quanto strada abbiamo fatto dalla sera prima) e ordiniamo dei bliny con panna acida e marmellata (credo di mirtilli). Dalle informazioni che riceviamo vediamo che Irkutsk è raggiungibile prima del calare del sole, non distando più di un 500 chilometri, e decidiamo di provare ad arrivarci senza fare tappe intermedie, quindi, avendo programmato la giornata, ci gustiamo la colazione chiacchierando del più e del meno.
Per evitare di addormentarci nell’accogliente caldo del bar usciamo per rimetterci in marcia. Facendo il solito controllo di routine al mezzo mi accorgo che la ruota anteriore sinistra non era stata montata correttamente compromettendone il corretto rotolamento e pertanto il battistrada, dal centro fino alla spalla, ha subito un’usura anormale consumando quasi completamente il rivestimento e lasciando scoperta la tela della carcassa. Sono obbligato a cambiare la gomma e il, seppur minimo, sforzo fisico unito al freddo pungente della mattina siberiana mi danno la sveglia per rimettermi dietro al volante. La macchina funziona di nuovo egregiamente e il problema allo sterzo è scomparso. Le distese infinite della Russia centrale scorrono pigramente intorno a noi mentre superiamo pochi paesini costituiti perlopiù da isbe, le caratteristiche casette rurali russe in legno, e gli inevitabili incidenti stradali delle statali russe.
Fonte della foto: google Luogo: Telma, Siberia
Telefono ad Alberto e gli domando come va lì ad Ulan Baatar; “bene”, mi risponde e mi manda anche una foto del servizio in camera. Gli chiedo poi se può prenotare una stanza a nome mio in un albergo ad Irkutsk in quanto inizio a sentire il bisogno di dormire. Poco dopo aver riagganciato mi arriva un messaggio con le indicazioni per arrivare in albergo. Continuo a guidare per buona parte del pomeriggio e vicino alla città di Telma (di cui ho fotografato la chiesa che qui allego) scorgo per la prima volta il fiume Angara, l’emissario del Lago Bajkal su cui si affaccia Irkutsk, la mia destinazione della giornata. Questo significa che sono quasi arrivato. Guido ancora per un’oretta e, poco prima di entrare in città, attraverso un ponte e quindi costeggio il fiume fino al centro storico di Irkutsk. Parcheggio insieme agli americani con cui ho viaggiato nella piazza del palazzo dell’amministrazione del distretto di Irkutsk e saluto per l’ultima volta i miei compagni di carovana; hanno prenotato un albergo appena fuori città quindi ci dividiamo dopo quasi 24 ore di guida ininterrotta insieme.
Il servizio in camera di Alberto a Ulan Baatar: pizza, gelato, birra e altre cose che non so.
La chiesa di Telma.
Con solo l’indirizzo tradotto foneticamente dal cirillico all’alfabeto latino mi metto alla ricerca del Delta Business Hotel. Mi inoltro nelle intricatissime strade a senso unico del quartiere antico della città armato solo della cartina della guida del Routard e della mia mezz’ora di sonno. Continuo a fare avanti e indietro per quasi un’ora quando, finalmente, trovo l’albergo e ci parcheggio davanti. Faccio appena in tempo a scendere dalla macchina che mi accorgo che è un edificio che cade letteralmente a pezzi e, per di più, è chiuso. Inizio a maledire Alberto che, sono sicuro, mi ha giocato uno scherzo, mandandomi in un albergo chiuso o, alla meglio, nel peggiore dell’oblast’. Vado alla porta e provo ad aprila ma è chiusa a chiave. Provo a bussare e dall’interno arriva una voce che mi dice di fare il giro dell’edificio poiché l’ingresso per i clienti è dall’altra parte.
Il retro dell'albergo. Fonte: google
Il davanti dell'albergo. Fonte: google
Riprendo la macchina e, fatto il giro dell’isolato, arrivo all’ingresso principale dove si è radunata una discreta folla. Parcheggio, scarico i bagagli, mi avvicino e mi rendo conto di essere nel bel mezzo di un matrimonio russo. Sono appena arrivati gli sposi per il ricevimento e sono stati accolti col tradizionale lancio di monetine. Mi metto da parte perché è impossibile entrare e mi faccio travolgere dall’atmosfera di allegrezza e spensieratezza. Quando tutto il corteo nuziale si è accomodato nella sala da pranzo entro nella hall per fare il check-in. Non appena ho preso la chiave della stanza vengo intercettato da alcuni invitati che mi chiedono se sono un parente o un amico, in quanto presumono che sia anch’io un invitato al matrimonio dacché è stato prenotato tutto l’albergo per la celebrazione. Io spiego che sto partecipando al Mongol Rally, che sono quasi tre giorni che guido ininterrottamente senza dormire e che quindi non conosco nessuno. Loro molto dispiaciuti mi spiegano che non possono invitarmi a cenare con loro in quanto non sono stato invitato ma che parleranno con gli sposi per farmi partecipare alla festa successiva al banchetto. Io ringrazio sapendo che sono ubriachi e che quindi, grazie a dio, non faranno nulla di quanto hanno detto e mi ritiro nella mia stanza. Faccio una doccia e poi ordino la cena: borsch e poi pesce del lago con patate.
Borsch: la pietanza nazionale russa.
Sto guardando un notiziario inglese quando sento bussare alla porta: sono i parenti della sposa che mi invitano a brindare alla salute e alla prosperità della coppia e mi trascinano sulla pista da ballo. Ritorno in camera alle quattro di mattina e punto la sveglia alle quattro e trenta. Crollo immediatamente nel sonno.
Domenica 31 agosto ’14, da Irkutsk a Ulaan Baatar – Mongol Rally 2014
La sveglia suona puntualissima alle quattro e mezza di mattina, concedendomi meno di mezz’ora di sonno. Ripetendomi mentalmente, per darmi il coraggio per scendere dal letto, che oggi sarà l’ultima tappa del viaggio, mi alzo, mi tolgo i vestiti che indosso continuativamente da troppi giorni, mi infilo nella doccia e poi torno a dormire per un’altra mezz’ora. Alle cinque penso di essere quasi del tutto riposato e, dopo aver radunato e raccolto le mie cose, lascio la stanza. Alla reception ritiro la colazione e il pranzo al sacco che avevo chiesto di prepararmi. Nella sala ristorante (e tutto intorno all’albergo) trovo ancora gli invitati al matrimonio che mi danno una fettona di torta al cioccolato e del caffè per il viaggio. Ringrazio, rinnovo i miei auguri agli sposi e, caricata la macchina, mi dirigo verso il confine tra la Russia e la Mongolia. Esco dal parcheggio, imbocco la strada verso il centro storico dove mi immetto in uno stradone che superato il ponte sul fiume Angara si inoltra nella zona periferica e industriale della città. Faccio tappa alla prima stazione di servizio aperta dove, mentre il pandino fa il pieno, mi bevo una zuppa calda e un mezzo litro di caffè. Ora che sono leggermente più pronto a mettermi in viaggio, sebbene non sia ancora completamente sveglio, prendo la P-258 che dovrebbe portarmi sulle rive del lago Bajkal. La strada, inizialmente piana, dopo un paio di chilometri inizia ad arrampicarsi sulle colline alberate inoltrandosi in un folto bosco. I curvoni si susseguono gentilmente fino a farmi scollinare a ridosso delle cittadine di Kultuk e di Sljudjanka, a un centinaio di chilometri di distanza dalla mia partenza. La vista (di cui però non ho foto) dall’altura che domina il paesaggio dinanzi a me è da togliere il fiato. Dalla nebbia alzatasi nelle ore che precedono l’alba, si riescono a scorgere le rive occidentali del lago Bajkal su cui si affacciano delle abitazioni in legno tradizionali e subito dietro la ferrovia e poi delle dolci colline su cui vi sono pascoli intermezzati da boschi e gruppi di abitazioni ancora addormentate. Alla mia sinistra, sul versante orientale del lago, di cui non si riesce a scorgere il termine, il calore arancione dell’alba inizia a farsi notare rimbalzando sulle nuvole superiori per riflettersi nell’enorme distesa d’acqua ai miei piedi.
Rallento per godermi il panorama e mi si avvicinano dei cani randagi. Rovisto tra i sedili alla ricerca degli avanzi degli hamburger dai giorni prima e poi li getto al branco. Riprendo la mia discesa verso la leggera nebbia mattutina che avvolge il villaggio ai miei piedi. Qui costeggio la ferrovia che si dirige verso il limite meridionale del lago, poi proseguo sulle sue rive mangiando la torta nuziale che mi è stata regalata.Guido vicino al lago per circa tre ore quindi la strada si inoltra nel bosco e poi in una piana che mi porta, dopo altre due ore, a superare Ulan Ude.Da qui prendo una stradina verso il confine con la Mongolia che si dipana in un continuo saliscendi di colline.
Poco prima dell’ora di pranzo arrivo alla frontiera e mi metto in coda. Le guardie sono in pausa pranzo così mi siedo su una barriera jersey a leggere il libro di Sacks sotto un sole battente ma ancora abbastanza freddo, sebbene mi stia dirigendo sensibilmente verso sud e verso il deserto mongolo. Chiacchiero cordialmente con la gente che come me sta aspettando per varcare il confine e sgranocchio qualche seme di girasole offertomi. Quando viene aperto il cancello per la sezione russa della frontiera avanzo e mi fermo alla stazione del controllo dell’auto e dei documenti. Avendo sbrigato le pratiche di rito esco della zona russa guadando una profonda pozza artificiale riempita d’acqua e per poco la panda non annega.Mi dirigo verso quello la postazione frontaliera mongola che sembra un aeroporto: una sezione rotonda a due piani centrale ricoperta da una cupola è affiancata ai due lati da tettoie in cui sono controllate le auto. Parcheggio innanzi all’ingresso e mi viene detto di tornare al cancello di ingresso per pagare cinque dollari per iniziare la procedura di passaggio della frontiera. Dopo aver adempiuto entro nella sezione centrale della dogana. Per prima cosa devo compilare i miei documenti e quelli della macchina secondo le linee guida lasciate lì dagli Adventurists, poi vengo perquisito io e viene perquisita la macchina, poi il supervisore ricontrolla la macchina facendomi scaricare e aprire tutto il bagaglio, poi mi fanno compilare un altro documento in si attesta che il pandino entra in Mongolia a carico degli organizzatori del rally e loro si fanno carico della sua uscita dal paese entro un determinato periodo, poi decidono di ricontrollare il numero di telaio e la targa per verificare che combacino con quanto indicato sul libretto e sul documento, poi mi fanno riaprire la macchina e ricontrollano tutto. Nel frattempo mi chiama mia madre per chiedere come va e per chiacchierare un po’, poi mi chiama Alberto per avere notizie e quindi mi chiamano alcuni sostenitori del viaggio per avere aggiornamenti in quanto dalla partenza in Kazakistan i social network erano stati un po’ trascurati. Una volta che tutti i documenti sono stati debitamente validati e timbrati dalle autorità competenti posso lasciare la postazione dei controlli doganali mongoli. Mi dirigo quindi verso l’uscita ma scopro che per entrare in Mongolia bisogna obbligatoriamente avere un’assicurazione valida e riconosciuta. Fortunatamente c’è un baracchino che la vende proprio lì. Entro nella casupola e aspetto il mio turno. Prima di me c’è un camionista che non vuole pagare l’obolo in quanto sostiene che la sua assicurazione sia valida. Viene portato fuori di peso e barbaramente picchiato a sangue. Io allora pago subito in contanti, lascio anche una mancia e già che ci sono mi faccio cambiare i soldi russi e anche qualche dollaro nella valuta locale. Sono finalmente ammesso alla guida in Mongolia.
Riprendo la mia marcia trionfale in direzione Ulan Bator. La strada asfaltata si dipana nel nulla ma ogni tanto c’è un casello e dopo il casello l’immancabile pattuglia di polizia da corrompere a cui lascio un paio di sigarette (via via che mi addentro nel cuore del paese diventano sempre più economici da corrompere).
Dopo un paio di ore di guida, di colpo la strada asfaltata scompare per lasciare posto a una pista di finissima sabbia rossa. Poi iniziano delle dune enormi che io prendo alla massima velocità possibile per non rimanere impantanata. A ogni scollinamento sbatto la testa sul soffitto della macchina, tutto va in disordine e entra una nuvola di polvere che non mi permette di vedere né di respirare. Gli unici accorgimenti che prendo sono chiudere i bocchettoni dell’aria e mettermi il buff a copertura del naso e della bocca. Copro anche i biscotti. Continuo sulle piste per tutto il pomeriggio e verso le sette di sera sono a cento chilometri dal traguardo (che chiude alle venti). Per entrare a Ulan Bator c’è un traffico terribile in quanto l’arteria principale è a due corsie per senso di marcia ed è completamente bloccata. Siccome il traguardo è chiuso quando ormai ci arrivo, mi dirigo verso l’albergo mettendoci davvero tantissimo tempo.
L’albergo è di una categoria oltre le cinque stelle e lo noto dal fatto che il facchino, quando mi vede arrivare, è professionalissimo nel non ridere vedendo la mia condizione e lo stato della macchina. Mi aiuta a scaricare mentre Alberto arriva ad accogliermi. Scattiamo qualche foto di rito davanti all’albergo e poi finalmente vado in camera dove faccio un bagno idromassaggio e mi preparo per la cena.
Alberto ha prenotato praticamente tutto il ristorante giapponese dell’hotel con un cuoco che arriva veramente dal Giappone tutto per noi. Iniziamo cena con della zuppa di miso e poi dell’ottimo sushi innaffiato con whisky giapponese. Quindi proseguiamo con due bistecche di manzo wagyu di Kobe e poi mangiamo dell’altro sushi come dessert. Proseguiamo la serata nel pub irlandese dietro all’albergo. Vado quindi a dormire a Ulan Bator, dopo oltre un mese dalla nostra partenza da Aosta.
Lunedì 1 settembre ’14, Ulaan Baatar – Mongol Rally 2014
Mi sveglio appena in tempo per fare colazione in quanto c’è qualsiasi cosa (sushi, carne, marshmallow con il fornelletto per abbrustolirli) poi mi metto nella hall a leggere il libro mentre aspetto Alberto per andare a pranzo. Mangiamo al ristorante europeo dell’albergo con fish and chisp e carbonara quindi svuotiamo la macchina e cerchiamo l’associazione di beneficienza che ci ha consigliato la receptionist dell’hotel e a cui vogliamo lasciare il cibo e i materiali che non ci servono più. Andiamo quindi in centro al supermercato a comprare regali, valigie per il ritorno e souvenir mongoli (tra cui la maglietta e il cappello delle foto del traguardo).
Alberto che pubblicizza uno dei nostri sponsor.
Ci dirigiamo poi al traguardo dove facciamo le foto di rito e lasciamo la macchina per il trasporto in treno verso l’Europa.
Alberto che scrive dediche sullo sporco del pandino.
Noi sul traguardo di Ulan Bator.
Ci facciamo quindi riportare in albergo da un taxi e poi andiamo a festeggiare al ristorante indiano concludendo degnamente la nostra avventura.