Mercoledì 27 agosto ’14, da Almaty a Semey – Mongol Rally 2014

da Almaty a Semey

Dopo un paio di ore di sonno agitato, la sveglia suona alle cinque e mezza di mattina e mi preannuncia una lunghissima giornata: devo arrivare a Semey. La strada da percorrere è lunga circa 1’200 chilometri e le mappe di google mi danno un tempo di percorrenza intorno alle 15 ore. Avendo imparato a diffidare dell’attendibilità della stima della durata del viaggio, posso immaginarmi di non arrivare a destinazione prima di una ventina di ore, sperando quindi di giungere a destinazione prima dell’alba e di non perdere un giorno sul programma già dalla prima tratta. Preparo le valigie, mi vesto e scendo nella hall dell’albergo dove c’è ancora la receptionist che assomiglia a Rebecca di Pawn Stars con cui avevo parlato il pomeriggio prima per farmi preparare colazione e pranzo al sacco. Dalla sua faccia, più addormentata della mia, capisco che non ha ancora finito il turno, che ormai dura da almeno dieci ore. A differenza di quanto successo all’arrivo, il personale dell’hotel si comporta in maniera molto disponibile: il portiere va a prendere la Panda e mi aiuta a caricarla, la receptionist, dopo avermi dato il cibo, mi abbraccia e mi augura buona fortuna. Io esco dall’albergo contento di questi saluti ma, appena prima di entrare in macchina, mi verso il caffè sui pantaloni. La tazza di carta da mezzo litro, in pieno stile americano, mi scivola mentre cerco le chiavi e il liquido scuro e bollente mi inzuppa completamente i pantaloni dandomi un principio di ustione (seriamente, mi sono poi venute anche le bolle). Imprecando amabilmente per il pessimo inizio di giornata, apro la valigia, tiro fuori i pantaloni della tuta, mi tolgo quelli bagnati e, dopo essermi asciugato con l’asciugamano, mi cambio; tutto ovviamente nel bel mezzo del parcheggio. La receptionist, che deve aver visto tutta la scena, esce e trattenendo a stento le risate mi dice di aspettare che va a farmi preparare un nuovo caffè e mi dà un sacchetto per mettere via i pantaloni zuppi. Aspettiamo quindi insieme la nuova colazione sulle panchine intorno a un fontana di fronte all’hotel chiacchierando lei in inglese e io in russo e quando, una decina di minuti dopo, arriva il nuovo caffè, ringrazio e mi metto in viaggio. Sono circa le sei e mezza di mattina e ho evitato il traffico; l’interminabile coda che avevamo incontrato entrando in città non c’è e dirigendomi verso nord non incontro praticamente nessuno, tranne qualche spazzino che pulisce le strade. Una decina di chilometri fuori Almaty mi fermo a fare benzina e colgo l’occasione per mangiare un dei panini preparati dall’hotel bevendo una red bull da 750 millilitri che ho comprato alla stazione di servizio. Il sole alla mia destra sta iniziando a fare capolino da dietro le montagne, la strada è molto buona e percorro spedito la sterminata pianura kazaka. Costeggio a velocità ridotta un lago su cui stanno costruendo una diga in quanto ci sono dei mezzi di movimento terra in mezzo alla careggiata ma subito inizia una specie di autostrada. Di colpo, dal nulla, spunta una specie di Las Vegas: da entrambi i lati della strada ci sono casinò a tema, concessionarie di auto e alberghi pacchianissimi. Facendo affidamento alla mia forza di volontà riesco a non fermarmi e proseguo fino all’ora di pranzo. Verso l’una del pomeriggio faccio sosta in un cantiere in una zona collinare per mangiare i panini e le brioche, per controllare l’auto e per fare telefonare ad Alberto. È arrivato a Seoul dove fa scalo e sta bevendo un cappuccino in aeroporto; racconto contentissimo che la cameriera coreana, dopo avergli fatto un inchino e accarezzato i peli del braccio, gli ha disegnato un cuore con la schiuma.

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Riprendo la strada e tutto procede senza intoppi fino a metà pomeriggio. La strada asfaltata decentemente e il tragitto monotono mi permettono di vagare liberamente con la mente cullato dalle dolci melodie del disco kazako comprato ad Almaty. I pensieri si susseguono lenti e pigri senza apparente difficoltà ma non conducono da nessuna parte e sovente si dissolvono in costruzioni assurde o paradossiche. Quando il sole è ormai passato alla mia sinistra da un paio di ore, in un lungo rettilineo in cui viaggio a velocità superiori ai 150 chilometri orari, sento la macchina inclinarsi verso destra. Apro il finestrino per controllare se le ruote dalla mia parte hanno qualche problema, mi sporgo per avere una visione migliore e gli occhiali, a causa del vento, mi vengono strappati dal viso e cadono. Immediatamente, alla cieca, mi fermo e accosto sul bordo della strada, ritorno sui miei passi cercando a tastoni gli occhiali e, a una distanza di un paio di centinaio di metri li ritrovo. Sono molto rovinati, entrambe le lenti sono parecchio graffiate e manca una stanghetta ma non posso fare altro che rimettermeli e continuare. Circa un’ora prima del tramonto mi sto avvicinando alla città di Ayagoz in cui c’è l’unico bivio della giornata quando mi chiama Alberto dicendo che è arrivato a Ulan Bator e che sta aspettando i bagagli. Chiacchieriamo un po’ e quando riagganciamo mi accorgo che ho preso a destra alla biforcazione quando invece avrei dovuto prendere a sinistra e mi sto inoltrando nella campagna kazaka su una strada sterrata con direzione il confine cinese. Giro la macchina e ripercorro a ritroso la strada per tornare al bivio e, al secondo tentativo, prendo la strada giusta. Da Ayagoz ci sono due strade per Semey: la prima, principale, passa per Qallabatau, è trafficata e più lunga, la seconda taglia in mezzo alla steppa e, in teoria, è più corta ma dovrebbe avere un livello di manutenzione inferiore. Siccome devo arrivare a destinazione entro la sera, decido di rischiare e prendere la strada più corta, essendo anche che mi hanno detto di non campeggiare nel nord del Kazakistan perché ci sono branchi di lupi selvaggi. Appena imboccata la strada mi accorgo che la velocità mantenuta per tutto il giorno sarà solo un dolce ricordo. Il manto asfaltato è ricoperto di buche e la pioggia che deve essere caduta nel pomeriggio, non permette di capire quanto siano profonde e pertanto sono costretto a un stressante slalom per non distruggere le sospensione, col risultato che la mia velocità media è inferiore ai 25 chilometri orari. Per un paio di ore non incontro nessuno, tranne che per un’ambulanza, quando, appena prima del tramonto, mi imbatto in una mandria di cavalli selvatici. Siccome è ormai quasi calato il sole e ritardare ancora non importa, mi fermo a fare delle foto. I cavalli sono molto diffidenti e mi devo avvicinare sottovento (non so se funziona anche per i cavalli ma l’ho fatto lo stesso) per riuscire a fotografarli ma nella maggior parte delle foto sono girati nella direzione opposta alla mia.

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Faccio anche qualche foto a del muschio e alla macchina non correndo il rischio di farli scappare.
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Quando riparto è ormai sceso il buio e nel giro di mezz’ora, anche con le luci sul tetto puntate a trenta gradi a illuminare la strada e con gli abbaglianti perennemente accesi, che fanno sembrare il pandino un’astronave, la visibilità si è ridotta praticamente a zero e, per evitare le buche, sono costretto a procedere a passo d’uomo. Non incontro anima viva per un paio d’ore, tranne che per un paesino chiamato Karaul in cui c’è una specie di festa di paese con delle giostre tristissime, mentre continuo ad addentrarmi nella steppa kazaka. Verso le dieci di sera Alberto mi chiama dal suo hotel di Ulaan Baatar per avvisarmi di essere arrivato sano e salvo e proprio mente parlo con lui mi attraversa la strada una specie di topo-canguro. È delle dimensioni di una lepre, cammina sulle due zampe posteriori che sembrano quelle di un canguro, ha una lunga coda da ratto e la zampe davanti come quelle di un t-rex, è color sabbia e si muove molto velocemente. Glielo descrivo al telefono e lui mi dice che sto di nuovo avendo le allucinazioni. Io concordo nel non escludere questa possibilità in quanto mi era già successo arrivando ad Atyrau, ma in quel caso erano mistiche e religiose. (Da approfondite ricerche è venuto poi fuori che la bestia che ho visto, sebbene non abbiamo tuttora la certezza che fosse reale, esiste veramente in quelle zone ed è il Grande Gerbillo, di cui si riporta una foto in calce).

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Verso le undici di sera, come un miraggio, inizio a scorgere l’aura arancione delle luci di quello che non può che essere la mia destinazione del giorno: Semey. Piano piano che mi avvicino il colore si fa più intenso e posso iniziare a distinguere i contorni della città. È incredibile come nel buio più assoluto di una notte senza luna l’inquinamento luminoso sia visibile a una distanza così grande, dalla mia cartina risulta infatti che mancano quasi cento chilometri alla meta. Rinfrancato però dalla prova tangibile dell’avvicinarsi del fine della tappa, metto in loop “Born to Be Abramo” di Elio e Le Storie Tese, spingo sull’acceleratore incurante delle buche dell’asfalto del manto stradale che stanno scomparendo all’approssimarsi alla città e in circa un’ora entro in città dal ponte sud cantando a squarciagola. Mi immetto in una strada con tre corsie per ogni senso di marcia e appena vedo un taxi fermo mi accosto. Chiedo al tassista se sa dov’è l’albergo Nomad (che ho trovato sulla guida) e se mi ci può portare e lui risponde di sì. Parte con me che lo segue nella Panda, continua sulla strada a sei corsie e dopo una decina di minuti entra in un piazzale di una casa popolare e mi fa segno di parcheggiare lì. Prendo la guida, scendo dalla macchina, la chiudo perché la zona non mi sembra rassicurante, e poi lo seguo su per una breve gradinata e dentro l’edificio. Ci avviciniamo a una specie di reception dove mi presenta alla signora seduta dietro al bancone e mi dice che devo prendere una stanza lì perché è economico ma molto buono. Gli spiego, mentendo, che non posso pernottare in quell’albergo e che devo assolutamente andare all’hotel che gli ho indicato perché lì c’è mio fratello che mi aspetta e non ha soldi. Il tassista non sembra convinto della mia spiegazione ma, controvoglia, acconsente a portarmi all’albergo che gli avevo indicato in primo luogo. Credo che avesse interessi economici a farmi prendere una camera nell’albergo in cui mi aveva portato. Risaliamo lui sul taxi e io sul pandino e prendiamo la strada per il centro di Semey. La prima fermata è un albergo ormai chiuso da tempo, proviamo a entrare ma le porte sono sbarrate con dei pannelli di compensato e le finestre sono tute state rotte. Mi dice che credeva fosse questo l’albergo che cercavo. È ormai mezzanotte, sono stanco, inizia a fare freddo e quindi decido di farla breve: chiamo l’albergo e dico alla receptionist, in inglese, che le avrei passato il mio tassista per fargli spiegare come arrivare al loro indirizzo. Annuisce mentre ascolta e poi mi ripassa il telefono facendomi segno di seguirlo ma appena ripartiamo mi accorgo che iniziamo a girare in tondo attorno al parco centrale della città. Si ferma poi in un albergo chiedendomi se è quello che volevo io; gli dico di no, lui si fa dare la guida ed entra per chiedere indicazioni, penso. Quando riesce ripartiamo e facciamo di seguito cinque alberghi uno peggiore dell’altro e ovviamente nessuno di essi è il Nomad Hotel. All’ultimo mi dice che non sa dov’è l’albergo perché è arrivato in città da un paio di giorni per dare il cambio a suo cugino che è dovuto tornare in campagna per affari non meglio precisati e che quindi non gli devo niente. Io lo ringrazio, annuncio che cercherò eroicamente l’albergo da solo e gli elargisco una mancia di 300 rubli e appena riparto in solitaria, dopo il primo angolo, ecco apparire la bruttissima facciata sovietica dell’Hotel Nomad (qui in una foto di repertorio).

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È ormai quasi l’una di mattina quando, ridotto come uno straccio, entro in albergo per prendere una camera. Espletate le mai semplici formalità per la registrazione in un hotel dell’ex area sovietica, il portinaio mi aiuta a scaricare la macchina e poi me la fa parcheggiare nel cortile interno. Salgo quindi in camera per darmi una veloce rinfrescata e mettermi dei vestiti puliti e vado al ristorante al primo piano per cenare. Nella sala oltre a me c’è solo un gruppo di uomini d’affari russi parecchio ubriachi che stanno guardando una partita di calcio della premier, non capisco se in diretta o no. Mangio velocemente la mia bistecca (cattiva) e poi torno in camera. Preparo la vasca per fare il bagno e dal rubinetto, credo per la ruggine nelle tubature, esce un’acqua talmente rossa che sembra del Sanbittèr e quando ho finito il bagno e mi sono asciugato, puzzo di ferro. Verso le due vado finalmente a dormire.