Giovedì 28 agosto ’14, da Semey a Barnaul – Mongol Rally 2014

Semey_barnaul

Mi sveglio prima ancora del suono della sveglia e, con la luce dell’alba che filtra dalle tende chiuse male, scorrendo con lo sguardo la stanza d’albergo mi rendo conto dello sporco che ho lasciato al mio passaggio.

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Foto di repertorio delle camere dell’albergo Nomad.

La valigia e lo zaino con l’attrezzatura fotografica sono coperti da due dita di polvere rossa della steppa kazaka, i miei vestiti sono ormai di un colore unico e nel letto e sul cuscino, nonostante il bagno della sera precedente, c’è una sindone polverulenta a mia immagine e somiglianza. Mi alzo, cerco di pulire alla meglio le mie cose, faccio un bagno al gusto ruggine, mi vesto e poi vado a fare colazione al ristorante dell’albergo.

Cartello dell'hotel che indica il bagno per le donne baffute.

Cartello dell’hotel che indica il bagno per le donne baffute.

Mangio dei muffin integrali, delle tartine col miele, bevo del sempre ottimo tè e poi concludo il pasto con delle appetitose crêpes alla carne macinata e prezzemolo. Scendo quindi al computer nella hall per controllare le email dai generosissimi donatori (ancora grazie), per ripassare il percorso della giornata e per prenotare la camera a destinazione. Oggi devo percorrere circa 450 chilometri in statale, il primo quarto in terra kazaka e il restante in Russia; prevedo pertanto di guidare per poco meno di 6 ore senza contare il tempo perso per espletare le formalità doganali. Chiacchiero un po’ con una coppia di anziani russi nella hall dell’albergo bevendo del tè e, prima liberare la camera, essendo l’ultimo mio giorno in Kazakistan per chissà quanto tempo, compro un bel po’ di souvenir locali, tra cui una divisa ufficiale delle Olimpiadi di Londra 2012.

La hall dell'albergo, a destra la postazione col computer, in mezzo la collezione di orologi a cucù famosa in tutto il Kazakistan. Questa foto non l'ho scattata io.

La hall dell’albergo, a destra la postazione col computer, in mezzo la collezione di orologi a cucù famosa in tutto il Kazakistan. Questa foto non l’ho scattata io.

Dopo aver caricato la macchina, saldato il conto e bevuto l’ennesima tazza di tè, allo scoccare delle undici e mezza di mattina mi rimetto in marcia in direzione nord, verso il confine russo. Appena esco dalla zona abitata di Semey, la strada inizia a perdersi in mezzo a un bosco di sempreverdi fittissimo per poi, dopo una ventina di chilometri, aprirsi nella più classica delle steppe. La guida è semplice e abbastanza noiosa mentre la macchina corre (troppo) veloce sulla strada ben asfaltata. Nonostante vi sia un principio di tendenza dello sterzo a puntare verso sinistra, incolpo le innumerevoli riparazioni, non me ne curo e proseguo la mia scampagnata. Passo nell’insediamento scarsamente abitato di Borovoye (Боровое), che sembra un set di un film western di Leone, e supero una fila di auto che hanno rallentato improvvisamente e che ora procedono a una velocità rispettosa dei limiti. Non mi faccio domande su questo peculiare comportamento da parte dei mai rispettosi del codice della strada guidatori kazaki e proseguo di gran carriera verso il confine. Un paio di centinaia di metri fuori dai confini del centro abitato la risposta si palesa di fronte a me sotto forma dapprima di una volante della polizia e poi, avvicinandomi, nel braccio teso delle forme dell’ordine a voler fermare la mia corsa. Iniziando a realizzare di essere passato in una zona con velocità massima consentita di 50 chilometri all’ora a, probabilmente, almeno il doppio di tale valore, inizio a preparare la solita banconota da 10 dollari nel passaporto per fare sì che la giustizia sia un po’ meno cieca del solito. Rallento, accosto sul ciglio della strada, scendo dalla macchina e aspetto che si avvicini il poliziotto. Mi dice che andavo a 87 chilometri all’ora invece che a 50 (valore decisamente inferiore alle mie più rosee previsioni) e che devo seguirlo alla centrale di polizia di Borovoye dove mi verrà ritirata la patente e inflitta una multa salatissima. Io mi fingo sorpreso delle sue minacce ma il militare imperterrito mi dice di avvicinarmi alla sua macchina dove mi mostra la velocità registrata tramite l’autovelox sullo schermo del suo computer portatile e mi spiega che non può fare nulla per aiutarmi. Io gli porgo il mio passaporto contenente il foglietto corruttivo e, appena lui ne vede la copertina, me lo strappa di mano e, ignorando completamente la mazzetta, apre alla prima pagina e urla sorpreso “italiano!”. Io lì per lì non capisco ma, dopo avermi reso il passaporto, accende l’autoradio dell’auto di pattuglia da cui inizia a suonare nientemeno che il bisbetico domato Adriano Celentano nella sua più classica interpretazione de “Il ragazzo della via Gluck” con l’inconfondibile inizio strumentale. Senza pensarci su attacco a cantare la prima strofa “Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck…” e lui, senza esitazione, si accoda vocalizzando all’unisono ogni verso fino alla fine sconsolata di “…e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba…” prima della coda finale. Quando inizia il brano successivo (“Sei rimasta sola”) siamo ormai compagni di canto e pertanto di rende il passaporto, mi augura buon viaggio, mi riaccompagna alla macchina e mi dice che sono libero di ripartire ma di guidare un po’ più lentamente nei centri abitati. Io ringrazio e mi rimetto in cammino riconoscendo che mai avrei pensato che Celentano avrebbe potuto salvarmi da una situazione potenzialmente molto spiacevole nelle distese del nord del Kazakistan (oltre che in Uzbekistan).

Verso l’una e mezzo del pomeriggio avvisto, alla fine di un interminabile rettilineo, la sbarra che indica l’inizio della zona di frontiera. Mi avvicino e sono solo il terzo in coda. Scendo dalla macchina e mi affaccio alla guardiola per vedere quale sia la procedura uscire dal Kazakistan. Dentro ci sono due militari che mi porgono un foglio da compilare con le mie generalità e con i dati della macchina. Quando lo riconsegno chiedo se per caso vi sia il parente del dipendente dell’albergo di Almaty che aveva telefonato in frontiera ma mi rispondono che è appena andato via in quanto il suo turno finiva alle 13. Sono però sorpresi di vedermi lì così presto in quanto è la prima volta che vedono qualcuno fare quel tragitto in così poco tempo in macchina. Io saluto e torno in macchina a mangiare il pranzo al sacco che avevo preso dalla colazione in albergo. Dopo una breve attesa mi è permesso l’ingresso nel complesso frontaliero e mi viene indicato di parcheggiare di fronte all’edificio col tetto blu della fotografia seguente per il controllo della macchina. Per prima cosa mi fanno aprire il cofano e la guardia osserva il motore con grugniti di assenso, poi controllano le quattro gomme e infine passano all’esame dell’interno del pandino. Apro tutte le valigie, mostro l’attrezzatura fotografica e accendo il computer, successivamente mi fanno mettere per terra tutta l’immondizia lasciata da Alberto sul pavimento del posto del passeggero per esaminarla meglio e, per ultimo, accendono l’autoradio e la radio CB per assicurarsi che non sia una spia. L’ufficiale mi fa segno di ricaricare tutto sulla macchina, mi comunica che non sono una spia, mi firma i documenti per l’uscita dal paese, mi saluta e mi indica di recarmi presso l’edificio seguente per adempiere alle formalità richieste per entrare in Russia. Parcheggio davanti all’ingresso e, con tutti i documenti diligentemente sotto il braccio, mi dirigo alla porta. Con mio massimo disappunto vedo che davanti a me si snoda una coda di una ventina di persone. Siccome prima di me non è entrato nessuno per almeno un’ora, deduco che non sarà una breve attesa. Verso le tre del pomeriggio torna l’addetto ai passaporti dalla pausa pranzo e oziosamente chiama il primo della fila. La coda avanza lentamente ma poco prima delle quattro del pomeriggio ho il timbro di ingresso sul passaporto e posso avanzare allo step successivo: il controllo della macchina e l’approvazione del foglio di deklaratia. Riprendo la macchina e parcheggio nell’area adibita ai controlli. Fortunatamente mi riconoscono valido quanto dichiarato per il Kazakistan e pertanto i controlli sono pressoché delle formalità. Alle quattro e mezza del pomeriggio sono pertanto in Russia e riprendo il viaggio a tavoletta.

Il confine tra Kazakistan e Russia.

Il confine tra Kazakistan e Russia.

Appena entrato in Russia. Fonto Google Maps.

Appena entrato in Russia. Fonte Google Maps.

Arrivo a Barnaul in serata inoltrata, percorro l’arteria principale, giro verso destra in un viale scarsamente illuminato e poi entro nella via che porta alla mia destinazione: un affittacamere siberiano chiamato Fedorov ApartHotel.

Foto trovate sull'internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull’internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull'internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull’internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull'internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull’internet, non le ho scattate io.

Parcheggio la macchina, scarico i bagagli e poi mi avventuro oltre le tre porte a tenuta stagna nei corridoi dell’edificio.

Il Fedorov ApartHotel. La foto non l'ho scattata io.

Il Fedorov ApartHotel. La foto non l’ho scattata io.

Mi indicano di andare al terzo piano dove trovo una gentile vecchina (che poi magari avrà avuto quarant’anni, ma tanto ha detto che non legge questo blog quindi, ai fini puramente narrativi, sarà una vecchina) ingobbita dall’età e vestita nella classica uniforme da nonna italiana: ciabatta con le dita che toccano per terra davanti, vestito a fiori a mezze maniche, grembiule consumatissimo e foulard in testa. Per non dimenticare il pentolone di stufato borbottante sul fornellino a gas. Mi presento, dico che ho prenotato una stanza e lei mi fa sistemare. L’affittacamere, diversamente da quanto pubblicizzato sull’internet, è una vecchia casa sovietica (il tipico квартира) in cui subito di fronte all’ingresso c’è la cucina della custode/proprietari e sul lungo corridoio si affacciano una decina di camere che condividono a coppie il bagno. La mia stanza è arredata semplicemente ma è molto accogliente, il letto a molle è appoggiato sotto la finestra che dà sulla città e che è formata da un doppio strato di vetri con un intercapedine di circa un metro, mi spiegano che i muri così spessi servono a proteggersi delle temperature siberiane. In effetti, sebbene sia agosto, il termometro segna solo qualche grade al di sopra dello zero. Mi riposo per una decina di minuta e poi torno in cucina per chiacchierare un po’ e per chiedere suggerimento per il posto in cui cenare. La vecchina sembra dispiaciuta di non potermi offrire quanto sta cucinando ma, mi spiega, è per il pranzo dell’indomani in quanto il venerdì viene suo nipote a farle visita. Mi consiglia però di andare a cenare al Caffè Arabika, l’unico locale aperto ancora a quell’ora della notta dove si possa mangiare. Chiama pertanto un suo parente che guida i taxi e mi ci fa portare.

Non ho scattato la foto.

Non ho scattato la foto.

Il locale, sebbene sia arredato in maniera molto occidentale e potrebbe benissimo figurare in una serie televisiva statunitense, offre una cucina dalle molte ispirazione, ma sempre dalla spiccata sensibilità siberiana. Ordino quindi per primo una zuppa di carne, poi una bistecca e infine il dolce della casa, tutto innaffiato da dell’ottimo cappuccino che le gentilissime e disponibilissime cameriere continuano a portarmi. Finito che ho di cenare, ed essendo l’unico cliente, mi fermo a chiacchierare con le ragazze che lavorano lì. Mi raccontano brevemente la storia della città, di come sia difficile vivere in Siberia ma che stanno tutte studiando all’università e che sperano, un giorno, di andare a vivere in un luogo più caldo. Io racconto del mio viaggio e faccio loro vedere anche le foto che ho scattato fino a quel momento. Rimangono deluse quando le informo che il pandino è rimasto parcheggiato davanti all’albergo. Ben oltre mezzanotte prendo un taxi e torno all’affittacamere a dormire.

Il Caffé Arabika. La foto non l'ho scattata io.

Il Caffé Arabika. La foto non l’ho scattata io.