Venerdì 29 agosto ’14, da Barnaul a Irkutsk, giorno 1 – Mongol Rally 2014

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La sveglia suona alle sei e mezza, faccio colazione nella stanza della vecchina che gestisce l’affittacamere (in sua compagnia) con caffè e fette biscottate e, dopo aver caricato la macchina, alle sette sono di nuovo in marcia. Mi dirigo verso nord per riprendere la statale che attraversa tutta la Russia, da Mosca a Vladivostok. Faccio il pieno, supero un passaggio a livello abbandonato e, prendendo una strada sulla destra che mi fa risparmiare parecchi chilometri, mi addentro in un bosco sulla classica strada russa a due corsie. Viaggio tutto il mattino senza nessun evento particolare e verso mezzogiorno decido di fermarmi a pranzare in quello che sembra un fast food sul ciglio della strada. Parcheggio nello spiazzo attiguo al ristorante (mi accorgo poi che è una vecchia pesa per i camion ormai in disuso), faccio un rapido controllo alla macchina e, dopo aver attraversato le doppie porte d’obbligo in Siberia, entro nel localee e all’interno sembra di essere in una replica Arnold’s. Dietro al bancone ci sono affissi i menù tra cui scegliere. Si compongono tutti grossomodo di un panino e di una bibita; le maggiori differenze stanno nei panini ma a me, basandomi sulle foto e non essendo troppo pratico di ingredienti russi, sembrano tutti uguali. Decido di andare sul sicuro e prendo quello che viene definito il “classico” e aggiungo anche un caffè al menù. Ora la preparazione è un po’ particolare. Iniziano con il caffè, fatto ovviamente con acqua calda di un bollitore e la polvere solubile. La bibita invece viene versata nel bicchiere di plastica da una lattina che era già aperta. Infine il panino viene tirato fuori da un freezer e, ancora nella sua confezione, messo a scongelare in un forno a microonde. Tutto questo avviene in bella vista del cliente e addirittura il forno è brandizzato con il logo e il nome del locale, come se fosse l’ultimo ritrovato tecnologico. Quando finisce il conto alla rovescia, la gentile cameriera estrae il panino dal forno e me lo consegna ancora incartato. Io ringrazio, saluto ed esco a mangiare appoggiandomi sul cofano della macchina. Per mio grande giubilo (ma non sorpresa) il panino è davvero buono; il formaggio abbraccia morbidamente la carne tritata spessa mentre le cipolle danno un tocco di gusto e croccantezza al tutto. L’unico neo potrebbe essere il cetriolo sottaceto che, a causa del suo altissimo contenuto di liquidi, nel formo a microonde ha assunto la temperatura della lava. Mi accorgo solo al momento di bere il caffè che, sebbene sia quasi l’una di pomeriggio di un giorno di fine agosto, io sto indossando una giacca da sci e si vede chiaramente sia il vapore del caffè che il mio soffio che cerca di raffreddarlo. Quando salgo in macchina, controllo il termometro e segna due gradi sopra lo zero.

Mi rimetto in cammino e viaggio tutto il pomeriggio. Poco prima delle 19 mi perdo nella periferia di un paesino e ne approfitto per fermarmi a fare la spesa per la cena e a chiedere informazioni. Vedo un market e vi entro. È uno stanzone con qualsiasi mercanzia immaginabile accatastata su delle scaffalature e in mezzo ci sono anche dei freezer. Prendo del cioccolato, delle bevande energetiche e tre panini scelti a caso tra quelli congelati. Due sono alla carne e uno è al pesce. Mentre la commessa me li fa scongelare (e riscaldare) nel forno a microonde – sembra sia il metodo di cucinare i panini più diffuso in Siberia – chiacchieriamo e mi racconta come sia vivere in quelle zone. Quando tutto è pronto, pago, saluto, esco e risalgo in macchina. Sono ancora decisamente perso (e mi sono dimenticato di chiedere indicazioni) e girovago con la macchina nella speranza di trovare un cartello indicante la statale. Quando vedo un enorme tir, decido di seguirlo e, in neanche dieci minuti, sono sulla strada per Irkutsk, la mia destinazione. Divoro un panino alla carne e poi provo a mangiare quello al pesce ma è troppo cattivo e, dopo averlo riavvolto nella carta, lo poso sul posto del navigatore. Non è ancora sceso il buio quindi procedo spedito. Incontro, sul ciglio della strada e nella direzione opposta, due inglesi (forse scozzesi), partecipanti anche loro al Mongol Rally, mentre sono intenti a esaminare la loro macchina. Mi fermo per chiedere se necessitino di assistenza e mi spiegano che hanno rotto la molla dell’ammortizzatore anteriore destro e che le stanno riparando con del legno sperando di arrivare alla città successiva per poterla sostituire. Sono partiti da Ulan Bator circa una settimana prima e si aspettano ancora venti giorni di viaggio prima di essere di nuovo nel Regno Unito. Faccio qualche foto, prendo i loro contatti e lascio i miei nel caso avessero bisogno e mi rimetto alla guida.

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Poco dopo il tramonto mi avvicino alla periferia di Krasnojarsk, una grande città siberiana che conta un milioncino di abitanti. La statale si divide: a sinistra la circumnaviga mentre a destra la attraversa. Non avendo una preferenza definita sul tragitto, rimango sulla destra e mi immetto nell’arteria principale della città. Penso che così facendo taglierò forse un po’ di strada e, se trovo un albergo invitante, potrei anche fermarmi a dormire. La strada scende verso il fiume e si immette sempre più nella periferia della città. Mi accorgo che sto andando nella direzione sbagliata quindi mi fermo in una stazione di servizio e chiedo indicazioni a un poliziotto. Lui, stupito di vedere uno straniero in quella zona della città, mi scorta fino all’imbocco con la strada principale che dovrebbe riportarmi sulla statale. Sono di nuovo da solo da qualche minuto quando, al lato di un incrocio, scorgo quello che sembra un missile. Non credo a quello che potrei aver appena visto quindi mi fermo, faccio retromarcia e torno sullo spiazzo. È proprio un missile. Faccio qualche foto, bevo una bevanda energetica, mangio una paio di biscotti e poi riparto. La strada si inoltra nella zona industriale della città e, quando ormai sono convinto di essermi perso nuovamente, sbuca sulla statale. Dopo un paio di ore di disperato girovagare ho ripreso finalmente la strada giusta. Alla prima stazione di servizio appena fuori Krasnojarsk incontro un team di due americani che vorrebbero dormire lì ma che non riescono a farlo perché un ubriaco li sta importunando. Decidiamo di fare convoglio fino a che non troviamo un posto per piantare le tende. Verso le quattro del mattino arriviamo a una coda di autoveicoli immobili. Scendiamo a vedere cosa sia successo e ci dicono che siamo a un passaggio a livello, che sta passando un treno e che ci vorrà almeno un’ora. Io prendo il cuscino e mi stendo tra i sedili per dormire un po’. Lascio la macchina al minimo, controllo che tutte le portiere siano bloccate, apro i bocchettoni del riscaldamento (fuori la temperatura è sotto lo zero) e, dopo una lunga giornata di guida solitaria nel cuore della Russia, chiudo finalmente gli occhi, con la leva del cambio saldamente conficcata in un fianco.

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Giovedì 28 agosto ’14, da Semey a Barnaul – Mongol Rally 2014

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Mi sveglio prima ancora del suono della sveglia e, con la luce dell’alba che filtra dalle tende chiuse male, scorrendo con lo sguardo la stanza d’albergo mi rendo conto dello sporco che ho lasciato al mio passaggio.

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Foto di repertorio delle camere dell’albergo Nomad.

La valigia e lo zaino con l’attrezzatura fotografica sono coperti da due dita di polvere rossa della steppa kazaka, i miei vestiti sono ormai di un colore unico e nel letto e sul cuscino, nonostante il bagno della sera precedente, c’è una sindone polverulenta a mia immagine e somiglianza. Mi alzo, cerco di pulire alla meglio le mie cose, faccio un bagno al gusto ruggine, mi vesto e poi vado a fare colazione al ristorante dell’albergo.

Cartello dell'hotel che indica il bagno per le donne baffute.

Cartello dell’hotel che indica il bagno per le donne baffute.

Mangio dei muffin integrali, delle tartine col miele, bevo del sempre ottimo tè e poi concludo il pasto con delle appetitose crêpes alla carne macinata e prezzemolo. Scendo quindi al computer nella hall per controllare le email dai generosissimi donatori (ancora grazie), per ripassare il percorso della giornata e per prenotare la camera a destinazione. Oggi devo percorrere circa 450 chilometri in statale, il primo quarto in terra kazaka e il restante in Russia; prevedo pertanto di guidare per poco meno di 6 ore senza contare il tempo perso per espletare le formalità doganali. Chiacchiero un po’ con una coppia di anziani russi nella hall dell’albergo bevendo del tè e, prima liberare la camera, essendo l’ultimo mio giorno in Kazakistan per chissà quanto tempo, compro un bel po’ di souvenir locali, tra cui una divisa ufficiale delle Olimpiadi di Londra 2012.

La hall dell'albergo, a destra la postazione col computer, in mezzo la collezione di orologi a cucù famosa in tutto il Kazakistan. Questa foto non l'ho scattata io.

La hall dell’albergo, a destra la postazione col computer, in mezzo la collezione di orologi a cucù famosa in tutto il Kazakistan. Questa foto non l’ho scattata io.

Dopo aver caricato la macchina, saldato il conto e bevuto l’ennesima tazza di tè, allo scoccare delle undici e mezza di mattina mi rimetto in marcia in direzione nord, verso il confine russo. Appena esco dalla zona abitata di Semey, la strada inizia a perdersi in mezzo a un bosco di sempreverdi fittissimo per poi, dopo una ventina di chilometri, aprirsi nella più classica delle steppe. La guida è semplice e abbastanza noiosa mentre la macchina corre (troppo) veloce sulla strada ben asfaltata. Nonostante vi sia un principio di tendenza dello sterzo a puntare verso sinistra, incolpo le innumerevoli riparazioni, non me ne curo e proseguo la mia scampagnata. Passo nell’insediamento scarsamente abitato di Borovoye (Боровое), che sembra un set di un film western di Leone, e supero una fila di auto che hanno rallentato improvvisamente e che ora procedono a una velocità rispettosa dei limiti. Non mi faccio domande su questo peculiare comportamento da parte dei mai rispettosi del codice della strada guidatori kazaki e proseguo di gran carriera verso il confine. Un paio di centinaia di metri fuori dai confini del centro abitato la risposta si palesa di fronte a me sotto forma dapprima di una volante della polizia e poi, avvicinandomi, nel braccio teso delle forme dell’ordine a voler fermare la mia corsa. Iniziando a realizzare di essere passato in una zona con velocità massima consentita di 50 chilometri all’ora a, probabilmente, almeno il doppio di tale valore, inizio a preparare la solita banconota da 10 dollari nel passaporto per fare sì che la giustizia sia un po’ meno cieca del solito. Rallento, accosto sul ciglio della strada, scendo dalla macchina e aspetto che si avvicini il poliziotto. Mi dice che andavo a 87 chilometri all’ora invece che a 50 (valore decisamente inferiore alle mie più rosee previsioni) e che devo seguirlo alla centrale di polizia di Borovoye dove mi verrà ritirata la patente e inflitta una multa salatissima. Io mi fingo sorpreso delle sue minacce ma il militare imperterrito mi dice di avvicinarmi alla sua macchina dove mi mostra la velocità registrata tramite l’autovelox sullo schermo del suo computer portatile e mi spiega che non può fare nulla per aiutarmi. Io gli porgo il mio passaporto contenente il foglietto corruttivo e, appena lui ne vede la copertina, me lo strappa di mano e, ignorando completamente la mazzetta, apre alla prima pagina e urla sorpreso “italiano!”. Io lì per lì non capisco ma, dopo avermi reso il passaporto, accende l’autoradio dell’auto di pattuglia da cui inizia a suonare nientemeno che il bisbetico domato Adriano Celentano nella sua più classica interpretazione de “Il ragazzo della via Gluck” con l’inconfondibile inizio strumentale. Senza pensarci su attacco a cantare la prima strofa “Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck…” e lui, senza esitazione, si accoda vocalizzando all’unisono ogni verso fino alla fine sconsolata di “…e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba…” prima della coda finale. Quando inizia il brano successivo (“Sei rimasta sola”) siamo ormai compagni di canto e pertanto di rende il passaporto, mi augura buon viaggio, mi riaccompagna alla macchina e mi dice che sono libero di ripartire ma di guidare un po’ più lentamente nei centri abitati. Io ringrazio e mi rimetto in cammino riconoscendo che mai avrei pensato che Celentano avrebbe potuto salvarmi da una situazione potenzialmente molto spiacevole nelle distese del nord del Kazakistan (oltre che in Uzbekistan).

Verso l’una e mezzo del pomeriggio avvisto, alla fine di un interminabile rettilineo, la sbarra che indica l’inizio della zona di frontiera. Mi avvicino e sono solo il terzo in coda. Scendo dalla macchina e mi affaccio alla guardiola per vedere quale sia la procedura uscire dal Kazakistan. Dentro ci sono due militari che mi porgono un foglio da compilare con le mie generalità e con i dati della macchina. Quando lo riconsegno chiedo se per caso vi sia il parente del dipendente dell’albergo di Almaty che aveva telefonato in frontiera ma mi rispondono che è appena andato via in quanto il suo turno finiva alle 13. Sono però sorpresi di vedermi lì così presto in quanto è la prima volta che vedono qualcuno fare quel tragitto in così poco tempo in macchina. Io saluto e torno in macchina a mangiare il pranzo al sacco che avevo preso dalla colazione in albergo. Dopo una breve attesa mi è permesso l’ingresso nel complesso frontaliero e mi viene indicato di parcheggiare di fronte all’edificio col tetto blu della fotografia seguente per il controllo della macchina. Per prima cosa mi fanno aprire il cofano e la guardia osserva il motore con grugniti di assenso, poi controllano le quattro gomme e infine passano all’esame dell’interno del pandino. Apro tutte le valigie, mostro l’attrezzatura fotografica e accendo il computer, successivamente mi fanno mettere per terra tutta l’immondizia lasciata da Alberto sul pavimento del posto del passeggero per esaminarla meglio e, per ultimo, accendono l’autoradio e la radio CB per assicurarsi che non sia una spia. L’ufficiale mi fa segno di ricaricare tutto sulla macchina, mi comunica che non sono una spia, mi firma i documenti per l’uscita dal paese, mi saluta e mi indica di recarmi presso l’edificio seguente per adempiere alle formalità richieste per entrare in Russia. Parcheggio davanti all’ingresso e, con tutti i documenti diligentemente sotto il braccio, mi dirigo alla porta. Con mio massimo disappunto vedo che davanti a me si snoda una coda di una ventina di persone. Siccome prima di me non è entrato nessuno per almeno un’ora, deduco che non sarà una breve attesa. Verso le tre del pomeriggio torna l’addetto ai passaporti dalla pausa pranzo e oziosamente chiama il primo della fila. La coda avanza lentamente ma poco prima delle quattro del pomeriggio ho il timbro di ingresso sul passaporto e posso avanzare allo step successivo: il controllo della macchina e l’approvazione del foglio di deklaratia. Riprendo la macchina e parcheggio nell’area adibita ai controlli. Fortunatamente mi riconoscono valido quanto dichiarato per il Kazakistan e pertanto i controlli sono pressoché delle formalità. Alle quattro e mezza del pomeriggio sono pertanto in Russia e riprendo il viaggio a tavoletta.

Il confine tra Kazakistan e Russia.

Il confine tra Kazakistan e Russia.

Appena entrato in Russia. Fonto Google Maps.

Appena entrato in Russia. Fonte Google Maps.

Arrivo a Barnaul in serata inoltrata, percorro l’arteria principale, giro verso destra in un viale scarsamente illuminato e poi entro nella via che porta alla mia destinazione: un affittacamere siberiano chiamato Fedorov ApartHotel.

Foto trovate sull'internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull’internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull'internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull’internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull'internet, non le ho scattate io.

Foto trovate sull’internet, non le ho scattate io.

Parcheggio la macchina, scarico i bagagli e poi mi avventuro oltre le tre porte a tenuta stagna nei corridoi dell’edificio.

Il Fedorov ApartHotel. La foto non l'ho scattata io.

Il Fedorov ApartHotel. La foto non l’ho scattata io.

Mi indicano di andare al terzo piano dove trovo una gentile vecchina (che poi magari avrà avuto quarant’anni, ma tanto ha detto che non legge questo blog quindi, ai fini puramente narrativi, sarà una vecchina) ingobbita dall’età e vestita nella classica uniforme da nonna italiana: ciabatta con le dita che toccano per terra davanti, vestito a fiori a mezze maniche, grembiule consumatissimo e foulard in testa. Per non dimenticare il pentolone di stufato borbottante sul fornellino a gas. Mi presento, dico che ho prenotato una stanza e lei mi fa sistemare. L’affittacamere, diversamente da quanto pubblicizzato sull’internet, è una vecchia casa sovietica (il tipico квартира) in cui subito di fronte all’ingresso c’è la cucina della custode/proprietari e sul lungo corridoio si affacciano una decina di camere che condividono a coppie il bagno. La mia stanza è arredata semplicemente ma è molto accogliente, il letto a molle è appoggiato sotto la finestra che dà sulla città e che è formata da un doppio strato di vetri con un intercapedine di circa un metro, mi spiegano che i muri così spessi servono a proteggersi delle temperature siberiane. In effetti, sebbene sia agosto, il termometro segna solo qualche grade al di sopra dello zero. Mi riposo per una decina di minuta e poi torno in cucina per chiacchierare un po’ e per chiedere suggerimento per il posto in cui cenare. La vecchina sembra dispiaciuta di non potermi offrire quanto sta cucinando ma, mi spiega, è per il pranzo dell’indomani in quanto il venerdì viene suo nipote a farle visita. Mi consiglia però di andare a cenare al Caffè Arabika, l’unico locale aperto ancora a quell’ora della notta dove si possa mangiare. Chiama pertanto un suo parente che guida i taxi e mi ci fa portare.

Non ho scattato la foto.

Non ho scattato la foto.

Il locale, sebbene sia arredato in maniera molto occidentale e potrebbe benissimo figurare in una serie televisiva statunitense, offre una cucina dalle molte ispirazione, ma sempre dalla spiccata sensibilità siberiana. Ordino quindi per primo una zuppa di carne, poi una bistecca e infine il dolce della casa, tutto innaffiato da dell’ottimo cappuccino che le gentilissime e disponibilissime cameriere continuano a portarmi. Finito che ho di cenare, ed essendo l’unico cliente, mi fermo a chiacchierare con le ragazze che lavorano lì. Mi raccontano brevemente la storia della città, di come sia difficile vivere in Siberia ma che stanno tutte studiando all’università e che sperano, un giorno, di andare a vivere in un luogo più caldo. Io racconto del mio viaggio e faccio loro vedere anche le foto che ho scattato fino a quel momento. Rimangono deluse quando le informo che il pandino è rimasto parcheggiato davanti all’albergo. Ben oltre mezzanotte prendo un taxi e torno all’affittacamere a dormire.

Il Caffé Arabika. La foto non l'ho scattata io.

Il Caffé Arabika. La foto non l’ho scattata io.