Mercoledì 27 agosto ’14, da Almaty a Semey – Mongol Rally 2014

da Almaty a Semey

Dopo un paio di ore di sonno agitato, la sveglia suona alle cinque e mezza di mattina e mi preannuncia una lunghissima giornata: devo arrivare a Semey. La strada da percorrere è lunga circa 1’200 chilometri e le mappe di google mi danno un tempo di percorrenza intorno alle 15 ore. Avendo imparato a diffidare dell’attendibilità della stima della durata del viaggio, posso immaginarmi di non arrivare a destinazione prima di una ventina di ore, sperando quindi di giungere a destinazione prima dell’alba e di non perdere un giorno sul programma già dalla prima tratta. Preparo le valigie, mi vesto e scendo nella hall dell’albergo dove c’è ancora la receptionist che assomiglia a Rebecca di Pawn Stars con cui avevo parlato il pomeriggio prima per farmi preparare colazione e pranzo al sacco. Dalla sua faccia, più addormentata della mia, capisco che non ha ancora finito il turno, che ormai dura da almeno dieci ore. A differenza di quanto successo all’arrivo, il personale dell’hotel si comporta in maniera molto disponibile: il portiere va a prendere la Panda e mi aiuta a caricarla, la receptionist, dopo avermi dato il cibo, mi abbraccia e mi augura buona fortuna. Io esco dall’albergo contento di questi saluti ma, appena prima di entrare in macchina, mi verso il caffè sui pantaloni. La tazza di carta da mezzo litro, in pieno stile americano, mi scivola mentre cerco le chiavi e il liquido scuro e bollente mi inzuppa completamente i pantaloni dandomi un principio di ustione (seriamente, mi sono poi venute anche le bolle). Imprecando amabilmente per il pessimo inizio di giornata, apro la valigia, tiro fuori i pantaloni della tuta, mi tolgo quelli bagnati e, dopo essermi asciugato con l’asciugamano, mi cambio; tutto ovviamente nel bel mezzo del parcheggio. La receptionist, che deve aver visto tutta la scena, esce e trattenendo a stento le risate mi dice di aspettare che va a farmi preparare un nuovo caffè e mi dà un sacchetto per mettere via i pantaloni zuppi. Aspettiamo quindi insieme la nuova colazione sulle panchine intorno a un fontana di fronte all’hotel chiacchierando lei in inglese e io in russo e quando, una decina di minuti dopo, arriva il nuovo caffè, ringrazio e mi metto in viaggio. Sono circa le sei e mezza di mattina e ho evitato il traffico; l’interminabile coda che avevamo incontrato entrando in città non c’è e dirigendomi verso nord non incontro praticamente nessuno, tranne qualche spazzino che pulisce le strade. Una decina di chilometri fuori Almaty mi fermo a fare benzina e colgo l’occasione per mangiare un dei panini preparati dall’hotel bevendo una red bull da 750 millilitri che ho comprato alla stazione di servizio. Il sole alla mia destra sta iniziando a fare capolino da dietro le montagne, la strada è molto buona e percorro spedito la sterminata pianura kazaka. Costeggio a velocità ridotta un lago su cui stanno costruendo una diga in quanto ci sono dei mezzi di movimento terra in mezzo alla careggiata ma subito inizia una specie di autostrada. Di colpo, dal nulla, spunta una specie di Las Vegas: da entrambi i lati della strada ci sono casinò a tema, concessionarie di auto e alberghi pacchianissimi. Facendo affidamento alla mia forza di volontà riesco a non fermarmi e proseguo fino all’ora di pranzo. Verso l’una del pomeriggio faccio sosta in un cantiere in una zona collinare per mangiare i panini e le brioche, per controllare l’auto e per fare telefonare ad Alberto. È arrivato a Seoul dove fa scalo e sta bevendo un cappuccino in aeroporto; racconto contentissimo che la cameriera coreana, dopo avergli fatto un inchino e accarezzato i peli del braccio, gli ha disegnato un cuore con la schiuma.

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Riprendo la strada e tutto procede senza intoppi fino a metà pomeriggio. La strada asfaltata decentemente e il tragitto monotono mi permettono di vagare liberamente con la mente cullato dalle dolci melodie del disco kazako comprato ad Almaty. I pensieri si susseguono lenti e pigri senza apparente difficoltà ma non conducono da nessuna parte e sovente si dissolvono in costruzioni assurde o paradossiche. Quando il sole è ormai passato alla mia sinistra da un paio di ore, in un lungo rettilineo in cui viaggio a velocità superiori ai 150 chilometri orari, sento la macchina inclinarsi verso destra. Apro il finestrino per controllare se le ruote dalla mia parte hanno qualche problema, mi sporgo per avere una visione migliore e gli occhiali, a causa del vento, mi vengono strappati dal viso e cadono. Immediatamente, alla cieca, mi fermo e accosto sul bordo della strada, ritorno sui miei passi cercando a tastoni gli occhiali e, a una distanza di un paio di centinaio di metri li ritrovo. Sono molto rovinati, entrambe le lenti sono parecchio graffiate e manca una stanghetta ma non posso fare altro che rimettermeli e continuare. Circa un’ora prima del tramonto mi sto avvicinando alla città di Ayagoz in cui c’è l’unico bivio della giornata quando mi chiama Alberto dicendo che è arrivato a Ulan Bator e che sta aspettando i bagagli. Chiacchieriamo un po’ e quando riagganciamo mi accorgo che ho preso a destra alla biforcazione quando invece avrei dovuto prendere a sinistra e mi sto inoltrando nella campagna kazaka su una strada sterrata con direzione il confine cinese. Giro la macchina e ripercorro a ritroso la strada per tornare al bivio e, al secondo tentativo, prendo la strada giusta. Da Ayagoz ci sono due strade per Semey: la prima, principale, passa per Qallabatau, è trafficata e più lunga, la seconda taglia in mezzo alla steppa e, in teoria, è più corta ma dovrebbe avere un livello di manutenzione inferiore. Siccome devo arrivare a destinazione entro la sera, decido di rischiare e prendere la strada più corta, essendo anche che mi hanno detto di non campeggiare nel nord del Kazakistan perché ci sono branchi di lupi selvaggi. Appena imboccata la strada mi accorgo che la velocità mantenuta per tutto il giorno sarà solo un dolce ricordo. Il manto asfaltato è ricoperto di buche e la pioggia che deve essere caduta nel pomeriggio, non permette di capire quanto siano profonde e pertanto sono costretto a un stressante slalom per non distruggere le sospensione, col risultato che la mia velocità media è inferiore ai 25 chilometri orari. Per un paio di ore non incontro nessuno, tranne che per un’ambulanza, quando, appena prima del tramonto, mi imbatto in una mandria di cavalli selvatici. Siccome è ormai quasi calato il sole e ritardare ancora non importa, mi fermo a fare delle foto. I cavalli sono molto diffidenti e mi devo avvicinare sottovento (non so se funziona anche per i cavalli ma l’ho fatto lo stesso) per riuscire a fotografarli ma nella maggior parte delle foto sono girati nella direzione opposta alla mia.

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Faccio anche qualche foto a del muschio e alla macchina non correndo il rischio di farli scappare.
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Quando riparto è ormai sceso il buio e nel giro di mezz’ora, anche con le luci sul tetto puntate a trenta gradi a illuminare la strada e con gli abbaglianti perennemente accesi, che fanno sembrare il pandino un’astronave, la visibilità si è ridotta praticamente a zero e, per evitare le buche, sono costretto a procedere a passo d’uomo. Non incontro anima viva per un paio d’ore, tranne che per un paesino chiamato Karaul in cui c’è una specie di festa di paese con delle giostre tristissime, mentre continuo ad addentrarmi nella steppa kazaka. Verso le dieci di sera Alberto mi chiama dal suo hotel di Ulaan Baatar per avvisarmi di essere arrivato sano e salvo e proprio mente parlo con lui mi attraversa la strada una specie di topo-canguro. È delle dimensioni di una lepre, cammina sulle due zampe posteriori che sembrano quelle di un canguro, ha una lunga coda da ratto e la zampe davanti come quelle di un t-rex, è color sabbia e si muove molto velocemente. Glielo descrivo al telefono e lui mi dice che sto di nuovo avendo le allucinazioni. Io concordo nel non escludere questa possibilità in quanto mi era già successo arrivando ad Atyrau, ma in quel caso erano mistiche e religiose. (Da approfondite ricerche è venuto poi fuori che la bestia che ho visto, sebbene non abbiamo tuttora la certezza che fosse reale, esiste veramente in quelle zone ed è il Grande Gerbillo, di cui si riporta una foto in calce).

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Verso le undici di sera, come un miraggio, inizio a scorgere l’aura arancione delle luci di quello che non può che essere la mia destinazione del giorno: Semey. Piano piano che mi avvicino il colore si fa più intenso e posso iniziare a distinguere i contorni della città. È incredibile come nel buio più assoluto di una notte senza luna l’inquinamento luminoso sia visibile a una distanza così grande, dalla mia cartina risulta infatti che mancano quasi cento chilometri alla meta. Rinfrancato però dalla prova tangibile dell’avvicinarsi del fine della tappa, metto in loop “Born to Be Abramo” di Elio e Le Storie Tese, spingo sull’acceleratore incurante delle buche dell’asfalto del manto stradale che stanno scomparendo all’approssimarsi alla città e in circa un’ora entro in città dal ponte sud cantando a squarciagola. Mi immetto in una strada con tre corsie per ogni senso di marcia e appena vedo un taxi fermo mi accosto. Chiedo al tassista se sa dov’è l’albergo Nomad (che ho trovato sulla guida) e se mi ci può portare e lui risponde di sì. Parte con me che lo segue nella Panda, continua sulla strada a sei corsie e dopo una decina di minuti entra in un piazzale di una casa popolare e mi fa segno di parcheggiare lì. Prendo la guida, scendo dalla macchina, la chiudo perché la zona non mi sembra rassicurante, e poi lo seguo su per una breve gradinata e dentro l’edificio. Ci avviciniamo a una specie di reception dove mi presenta alla signora seduta dietro al bancone e mi dice che devo prendere una stanza lì perché è economico ma molto buono. Gli spiego, mentendo, che non posso pernottare in quell’albergo e che devo assolutamente andare all’hotel che gli ho indicato perché lì c’è mio fratello che mi aspetta e non ha soldi. Il tassista non sembra convinto della mia spiegazione ma, controvoglia, acconsente a portarmi all’albergo che gli avevo indicato in primo luogo. Credo che avesse interessi economici a farmi prendere una camera nell’albergo in cui mi aveva portato. Risaliamo lui sul taxi e io sul pandino e prendiamo la strada per il centro di Semey. La prima fermata è un albergo ormai chiuso da tempo, proviamo a entrare ma le porte sono sbarrate con dei pannelli di compensato e le finestre sono tute state rotte. Mi dice che credeva fosse questo l’albergo che cercavo. È ormai mezzanotte, sono stanco, inizia a fare freddo e quindi decido di farla breve: chiamo l’albergo e dico alla receptionist, in inglese, che le avrei passato il mio tassista per fargli spiegare come arrivare al loro indirizzo. Annuisce mentre ascolta e poi mi ripassa il telefono facendomi segno di seguirlo ma appena ripartiamo mi accorgo che iniziamo a girare in tondo attorno al parco centrale della città. Si ferma poi in un albergo chiedendomi se è quello che volevo io; gli dico di no, lui si fa dare la guida ed entra per chiedere indicazioni, penso. Quando riesce ripartiamo e facciamo di seguito cinque alberghi uno peggiore dell’altro e ovviamente nessuno di essi è il Nomad Hotel. All’ultimo mi dice che non sa dov’è l’albergo perché è arrivato in città da un paio di giorni per dare il cambio a suo cugino che è dovuto tornare in campagna per affari non meglio precisati e che quindi non gli devo niente. Io lo ringrazio, annuncio che cercherò eroicamente l’albergo da solo e gli elargisco una mancia di 300 rubli e appena riparto in solitaria, dopo il primo angolo, ecco apparire la bruttissima facciata sovietica dell’Hotel Nomad (qui in una foto di repertorio).

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È ormai quasi l’una di mattina quando, ridotto come uno straccio, entro in albergo per prendere una camera. Espletate le mai semplici formalità per la registrazione in un hotel dell’ex area sovietica, il portinaio mi aiuta a scaricare la macchina e poi me la fa parcheggiare nel cortile interno. Salgo quindi in camera per darmi una veloce rinfrescata e mettermi dei vestiti puliti e vado al ristorante al primo piano per cenare. Nella sala oltre a me c’è solo un gruppo di uomini d’affari russi parecchio ubriachi che stanno guardando una partita di calcio della premier, non capisco se in diretta o no. Mangio velocemente la mia bistecca (cattiva) e poi torno in camera. Preparo la vasca per fare il bagno e dal rubinetto, credo per la ruggine nelle tubature, esce un’acqua talmente rossa che sembra del Sanbittèr e quando ho finito il bagno e mi sono asciugato, puzzo di ferro. Verso le due vado finalmente a dormire.

Martedì 26 agosto ’14, Almaty – Mongol Rally 2014

Oggi la sveglia è puntata per l’impossibile ora delle otto di mattina perché dobbiamo andare al consolato russo per elemosinare il rinnovo del visto di Alberto per la Russia. Ancora rallentati dal sonno ci incontriamo nel bar dell’albergo per fare colazione con il buon caffè che il gentile barista ci prepara e con la prole che nascerebbe dall’accoppiamento di un muffin all’uvetta, di una brioche integrale e di un panzerotto al montone e cipolle.  Per digerire prendiamo un taxi e ci dirigiamo verso gli uffici consolari russi a una ventina di minuti di distanza. Arriviamo qualche minuto prima delle nove e c’è giù una coda di una cinquantina di persone. Ci avviciniamo alla porta per chiedere se bisogna prendere un biglietto o qualcosa del genere e la guardia ci risponde bisognava prenotarsi negli scorsi giorni e che chiamano dall’interno tramite un interfono. Siccome l’apertura settimanale del consolato al pubblico avviene solamente il martedì e non possiamo aspettare un’altra settimana per richiedere il visto, approfittiamo della prima volta che la porta si apre per fare entrare delle persone chiamate, ci infiliamo con nonchalance e ci mettiamo in coda al metal detector della guardiola interna all’edificio come se niente fosse. Abbiamo in pratica appena fatto irruzione in un consolato russo. Il militare a guardia della porta d’ingresso interna che porta agli uffici ci fa segno di avvicinarci per la registrazione e quando controlla sulla sua lista i nostri nomi ovviamente non li trova. Prima che riesca a chiamare i rinforzi per sbatterci fuori dal suolo russo lo convinciamo a farci passare spiegandoli che dobbiamo solo richiedere un visto e che non possiamo perdere altro tempo in territorio kazako. Divertito dal mio russo maccheronico e dalla nostra mancanza di buon senso verso la nazione più potente della terra (Пролетарии всех стран, соединяйтесь!) ci permette di entrare sotto la sua responsabilità. Ci fa però promettere di non portare dentro pistole, coltelli o altre armi e di non provare a fare attentati. Noi a malincuore gli diamo la nostra parola d’onore di giovani proletari e oltrepassiamo la porta verso un mondo migliore fatto di speranza e opportunità.

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Entriamo quindi in uno stanzone senza finestre con al centro un enorme tavolo quadrato con una dozzina di sedie intorno. Su tre pareti si aprono degli sportelli protetti da spessi vetri antiproiettile mentre volantini e poster di propaganda ricoprono tutte le superfici visibili e un televisore sintonizzato su un canale moscovita di notizie sta trasmettendo, a causa del fuso orario, il telegiornale della sera prima. Sembra che nella capitale dell’impero si preannunci una settimana molto afosa. Individuiamo lo sportello adibito al rilascio e al rinnovo dei visti e ci mettiamo in coda.

Bisogna a questo punto fare un excursus demo-etno-antropologico sul rapporto tra la popolazione kazaka (e in particolare quella di Almaty) e la raffinata arte di fare la coda. Nei continenti occidentali, certamente converrete con me, si considera il centro di massa di ogni persona per stabilire la sua posizione in una folla tendente a uno scopo, sebbene disordinatamente. Cosicché si può certamente fare fede alle coordinate spaziali dell’ombelico di ciascuno per stabilire la collocazione e l’ubicazione ordinale del suo possessore nella fiumana umana. Nel grandioso stato del Kazakistan questo non avviene ma si applica il metodo dell’appendice, derivato dalle grandiosi gare equestri delle popolazioni nomadi che si insediarono tempo addietro nelle steppe della zona. Questa metodologia di ordinare una coda introduce una componente ludica e aleatoria che non può che rallegrare le folle in attesa in quanto l’epicentro dell’attenzione passa dal centro di massa, punto non molto mobile nella calca e nella ressa proprie di una vera coda, a una qualsiasi appendice direttamente controllabile dal suo possessore. Questo significa che anche una mano, un piede e la punta di un capello (ma non oggetti inanimati, si faccia attenzione), se situati davanti a tutte le appendici di un’altra persona in coda, comporta il suo superamento da parte del possessore della mano, del piede o del capello, anche se, considerato col metodo del centro di massa, sarebbe in una posizione inferiore. Introduco ora un’altra regola: la posizione si cristallizza nel momento in cui viene chiamato il primo in linea della coda. Bisogna pertanto cercare di cogliere gli indizi involontariamente emessi dalla persona addetta dire il fatidico “il prossimo” (Следующий) per essere posizionati nel modo migliore possibile alla fine della frase.

Siamo pertanto in coda per richiedere il rinnovo del visto di Alberto per entrare in Russia prima della nostra ultima nazione, la Mongolia, e ci saranno dieci persone prima di noi. Il tempo scorre ozioso, noi leggiamo, scriviamo cartoline o fissiamo lascivamente le giovani sovietiche, fino a che arriviamo terzi in linea. Da questo momento inizia il gioco della coda. Immediatamente il secondo riesce a superare il primo con un abile colpo a sorpresa della mano sinistra che segue una meravigliosamente eseguita finta di polso destro e passa primo in fila. Il precedente primo diventa quindi secondo e si posiziona davanti a noi. Con nostra sorpresa però il quarto, ovvero la persona dietro di noi, riesce a superarci passando terzo. Ora che l’ex secondo è allo sportello è fuori dalla competizione e pertanto noi rimaniamo terzi, essendo stati superati da una persona. A questo punto elaboriamo una strategia; stabiliamo di non superare nessuno perché abbiamo promesso alla guardia di non provocare problemi, ma siamo decisi a non farci superare a nostra volta. Alla chiamata seguente Alberto si mette molto a distanza dietro di me e pertanto non permette a nessuno di superarci (in quanto quando due persone fanno la fila insieme contano come una sola), il secondo non riesce a superare il primo e così diventiamo secondi in fila con davanti a noi solo l’individuo che ci aveva superato. Passano dieci minuti che sembrano usciti dalla scena iniziale di “C’era una volta il west” di Sergio Leone quando finalmente l’impiegato dietro al vetro antiproiettile dello sportello posa il timbro e si prepara a chiamare il primo della fila. Alberto, che si era accovacciato, si alza di scatto a bloccare tutti i tentativi di sorpasso dalle retrovie colpendo ogni appendice sporgente dalla massa in coda. Io, con una mossa ninja, batto un colpo sulla spalla destra della persona che ci aveva superati poco prima e lui, distratto dal telegiornale alla televisione, si gira a vedere chi stia richiedendo la sua attenzione. Io mi scanso verso sinistra col piede destro e facendo perno col sinistro faccio un piroetta in senso antiorario e mi posiziono davanti a lui senza concedergli alcuna possibilità di reazione e decreto la sua sconfitta definitiva consegnando il passaporto di Alberto e tutti gli altri documenti all’impiegato.

Dall’altra parte del vetro c’è un signore di una quarantina di anni con il volto bruciato dal sole (e dalla vodka) incorniciato da una profonda calvizie che gli dà un’aria immediatamente simpatica. Il quadro viene poi completato da una camicia a quadretti a maniche corte abbinata a un’improbabile cravatta con fantasie rese illegali dal Patto Atlantico. Appena gli chiediamo se può rinnovarci il visto inizia a controllare tutti i documenti che abbiamo prodotto emettendo sempre suoni di approvazioni e vistosi segni affermativi col capo. Quando siamo quasi sicuri che ci darà l’agognato timbro lui alza la testa, ci guarda per un secondo e poi dice che non possiamo rinnovare il visto lì, ma che tutti i documenti sono a posto. Chiediamo spiegazioni e lui risponde che il visto russo può essere richiesto solo nel paese di residenza oppure per rientrare in detto paese. Cerchiamo di convincerlo che dobbiamo rientrare in Russia per tornare a casa ma lui ci dice che siccome ci sono altre strade per tornare in Italia non può concederci il permesso di rimettere piede sul territorio della Madre Russia. Vorremmo provare con un piccolo presente di dollari statunitensi ad addolcirlo ma temiamo che corrompere un funzionario sovietico all’interno di un’ambasciata possa essere compromettente. Lui però di punto in bianco si alza, ci saluta e se ne va dicendo che il suo turno è finito. Arriva però una gentile signora sovrappeso e rubiconda che in un perfetto francese ci spiega che quello che ci ha detto il suo collega è corretto e che quindi Alberto deve prima di entrare in Russia, tornare in Italia e da qui richiedere il visto. Alberto prova a sedurla mostrando scoprendo una timida spalla ma lei rimane glacialmente indifferente alle avance del giovane disposto a tutto pur di ottenere ciò che brama. Delusi ma non vinti lasciamo il consolato russo decisi a trovare una soluzione.

Prendiamo un altro taxi per tornare in albergo dove, nella calma del dehors del bar, armati di computer e cellulari, cerchiamo una soluzione per portare Alberto all’interno dei confini mongoli. Dobbiamo evitare la Russia quindi decidiamo di cercare un volo da Almaty fino alla città mongola dotata di aeroporto più vicina al confine. Contento dei progetti elaborati decido di andare a pranzare al ristorante cinese dell’albergo. Alberto acconsente a condizione di andare quella sera a mangiare indiano.

Nel primo pomeriggio, dopo la siesta di rito, ci dirigiamo presso una vicina agenzia di viaggi per prenotare un volo adatto. Uscendo dall’albergo prendiamo a destra verso la collina e quindi, alla prima traversa, giriamo verso sinistra in una stradina privata dove, nel secondo edificio sulla sinistra, c’è l’agenzia di viaggi che ci hanno consigliato alla reception dell’hotel. Appena entrati ci accoglie l’ambiente più kitsch del mondo. L’intero ufficio è stato dipinto nelle tinte del rose, le pareti sono coperte di scaffalature stracolme di souvenir pacchiani e brutti articoli per turisti e dove finiscono i ripiani inizia una distesa di poster anni novanta di località esotiche. All’ingresso, a sinistra e a destra ci sono due scrivanie occupate da giovani e rampanti operatrici turistiche, proseguendo, sulla destra c’è un acquario tropicale, poi un’altra posizione di lavoro e, infine, in fondo alla lunga stanza, c’è il tavolo della direttrice dell’attività commerciale. Ci viene fatto segno di accomodarci di fronte a quest’ultima scrivania e di attendere l’arrivo della sua proprietaria. Dopo una paio di minuti passati sfogliando brochure pubblicitarie sull’Italia, ci si presenta dinnanzi una procace donna di mezza età di etnia russa che, dopo essersi sistemata la permanente e la scollatura, ci chiede come può aiutarci. Siccome Alberto è distratto le dico che vorremmo un volo per la città mongola più vicina al confine occidentale con la Russia in quanto vorremmo guidare attraverso la Mongolia fino a Ulan Bator e che non possiamo passare in Russia. Lei annuisce con fare di assenso, digita qualcosa al computer e ci dice che non esistono voli così e che l’unica possibilità è atterrare a Ulan Ude e da qui continuare verso Ulan Bator. Io le faccio gentilmente notare che Ulan Ude è in Russia e che quindi Alberto avrebbe trovato dei problemi anche a uscire dall’aeroporto in quanto sprovvisto di visto. Ci vengono quindi proposte delle alternative ma tutte prevedono l’arrivo in Russia. Alberto, che ha intanto perso la pazienza, si alza e si dirige verso il grande mappamondo al lato della scrivania e inizia a elencare tutte le città mongole che potrebbero avere uno scalo aereo chiedendo di cercare un volo per quella destinazione ma l’unica soluzione che si trova è un volo con tre scali verso Ulan Bator dal costo proibitivo. Noi allora ringraziamo e diciamo che torneremo l’indomani per prenotarlo ma in realtà stiamo mentendo.

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Usciti dall’agenzia di viaggi torniamo verso l’albergo, ci sediamo al bar e riprendiamo le nostre ricerche. Effettivamente i voli per le città minori della Mongolia sono rari e, in ogni caso, non ci sono più posti liberi per tutto il mese. La soluzione migliore che troviamo è un volo per Ulan Bator con scalo a Seoul con partenza la mattina successiva e l’arrivo in serata. Lo prenoto e poi passiamo a progettare il mio viaggio. Decido di partire l’indomani all’alba e di dirigermi verso Semej, dove spero di arrivare in serata, quindi il giorno successivo entrare in Russia e, seguendo la strada trans-siberiana, passare per Ulan Ude e entrare trionfalmente a Ulan Bator dopo una decina di giorni di viaggio. Alberto mi aspetterà nella capitale mongola e insieme andremo al traguardo del Mongol Rally. Vado alla reception dell’albergo per dire che quella sarebbe stata la nostra ultima sera, chiedo di preparami la colazione per le sei di mattina e poi chiedo se secondo loro ci sarebbero stati problemi a rientrare in Russia in quanto all’ingresso in Kazakistan hanno registrato sul documento della macchina due passeggeri. La gentile receptionist chiama un impiegato dell’albergo che ha un fratello che lavora al confine nord tra Kazakistan e Russia. Gli telefoniamo e lui conferma che non ci dovrebbero essere problemi ma per sicurezza mi fa preparare un documento in cui si garantisce per me (o almeno spero sia così). Ringrazio Rebecca e salgo in camera per preparami alla cena al ristorante indiano che Alberto ha scelto.

Poco prima delle sette e mezza ci ritroviamo al bar, prendiamo un taxi al volo e ci facciamo portare al ristorante ma lo troviamo chiuso per ristrutturazione. Siccome Alberto vuole per forza mangiare indiano andiamo alla ricerca di un wifi aperto per trovare un altro ristorante. Così facendo percorriamo parecchi isolati quando stremati dalla fame, fermiamo un taxi e ci facciamo portare al pub più vicino. Con nostro immenso stupore il Shakespeare Pub è un ristorante indiano. Mangiamo degli hamburger e zuppe indiane guardando Kaddabi, uno sport indiano simile alla palla prigioniera in cui quando si attacca non si può inspirare e bisogna urlare il nome dello sport. Dopo cena facciamo una passeggiata per tornare all’albergo e poi ci salutiamo. Le nostre strade si separano per un po’ e non è detto che ci rincontreremo.