Domenica 24 agosto ’14, da Biškek ad Almaty – Mongol Rally 2014

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Cartina un po' più larga, giusto per dare le proporzioni.

 

Il tragitto previsto per oggi è relativamente breve, circa 250 chilometri. Prevediamo di percorrerlo in meno di quattro ore, e, se vi sommiamo il paio di ore che perderemo alla frontiera tra il Kirghizistan e il Kazakhistan, non staremo in viaggio per più di sei ore. È pertanto la giornata giusta per non mettere la sveglia e dormire fino a tardi.

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Mi sveglio quindi verso le nove e vado al ristorante all’ultimo piano dell’albergo a fare colazione con cappuccino (l’unico degno di questo nome da oltre un mese) e brioche. Poi esco in terrazza a scattare foto alla macchina e al paesaggio e a poltrire al caldissimo sole di Biškek.

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Guardandomi nel riflesso delle porte a vetri mi accorgo che ho sul viso una barba degna dei migliori esploratori vittoriani ma anche che dovrei sistemarla per evitare rogne alla frontiera. Purtroppo, per portare a termine il mio piano, ho bisogno di un paio di forbici, uno dei pochi oggetti che mancano alla dotazione della nostra Panda rossa. Scendo quindi in reception a chiedere dove posso comprarne un paio e, ottenute le indicazioni, mi dirigo verso il negozio. Esco dall’albergo e mi incammino verso destra. Supero il monumento dedicato ad Aaly Tokombaev, guardo una comitiva nuziale mentre fa le foto davanti alla chiesa dall’altra parte della strada e, arrivato all’incrocio con il prospekt principale, mi giro e torno indietro: fa troppo caldo e ho deciso che la barba va bene così com’è.

Torno a leggere sulla balconata all’ultimo piano dell’albergo e, verso mezzogiorno, faccio chiamare Alberto per raggiungermi per mangiare. Pranziamo con club sandwich, manty e un gioioso assortimento di dessert poi, dopo aver caricato la macchina, partiamo in direzione del confine col Kazakhistan.

Appena fuori Biškek una pattuglia della polizia mi ferma e mi contesta un eccesso di velocità: stavo andando a 51 chilometri all’ora in una zona il cui limite è solo di 40. Pago una mazzetta di 10 dollari statunitensi, chiedo indicazioni per il confine e poi ci rimettiamo in marcia. La strada è a quattro corsie asfaltata decentemente, ai margini scorre, da una parte, un ruscello mentre dall’altra è affiancata da una lunga fila di alberi. Oltre, a perdita d’occhio, vi sono campi coltivati su cui vagano capi di bestiame e agricoltori.

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A circa un chilometro dal confine inizia la coda. Noi facciamo gli italiani e la saltiamo allegramente e, a una decina di macchina dalla sbarra che segnala l’inizio della zona militare, cerchiamo di infilarci di nuovo in fila.

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Per nostra fortuna, una vecchia berlina Lada al nostro fianco si spegne e non sembra volersi rimettere in modo; noi ne approfittiamo e rientriamo in coda sfruttando lo spazio che si è creato. Non sembra che riusciremo a entrare nella zona dei controlli in tempi brevi, così scendiamo dalla macchina per non morire di caldo. La Lada dietro di noi continua a non avere l’intenzione di accendersi; io mi avvicino al cofano al faccio segno all’autista di aprirlo poi con espressione concentratissima mi metto a fissare il motore il più intensamente che posso. Controllo i cavi, i livelli e verifico le candele, poi mi sporgo lateralmente e faccio segno al guidatore di provare a mettere in modo. Incredibilmente la macchina si accende al primo colpo: ne sono stupito ma cerco di non farlo vedere e mi comporto come fosse una cosa normale. Faccio un cenno di intesa col capo, come per dire: “non dovrebbe più dare problemi”, richiudo il cofano, tiro fuori dalla tasca un sacchetto di semi di girasole e mi metto a sgranocchiare chiacchierando con altre persone in coda.

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Scatto un paio di foto per finire il rullino (non vorrei che mi aprissero la macchina ai controlli), vado verso il fiume dove c’è un bazar improvvisato e compro qualcosa da bere poi, finalmente, risalgo in macchina e entriamo nella zona militare.

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Superiamo i soliti controlli, compiliamo le ennesime dichiarazioni, giochiamo con Borat, il cane della frontiera kazaka (giuro), smontiamo la macchina e apriamo tutti i bagagli e, dopo circa un’ora e mezza, rientriamo nel glorioso Kazakhistan.

La strada fino ad Almaty non è per niente male e veniamo intrattenuti dagli stop delle altre macchine.

All’entrata della città c’è un traffico incredibile e perdiamo un paio di ore. Quando siamo in centro cerco un taxi per farci scortare fino all’albergo ma non ce ne sono. Alberto allora prende in mano la situazione e, armato di cartina, riesce a farci raggiungere l’Hotel Voyage senza sbagliare nemmeno una volta. Parcheggio davanti all’ingresso ed entro a prendere le stanze. Ovviamente sono conciato malissimo: vestiti strappati e impolverati, cappello da camionista sbiadito, strato di polvere su tutte le parti del corpo visibili e puzza che annuncia il mio arrivo. Il portinaio si rifiuta di aprirmi la porta e la receptionist, nella lingua locale, mi dice di andarmene giacché, in quel luogo di classe, non sono ben accetti gli accattoni. Io sorrido e sfodero la prenotazione. Lei continua a guardarmi con diffidenza e, controvoglia, mi da le chiavi delle camere. Torno fuori a scaricare la macchina e la parcheggio dove mi viene indicato: nell’angolo più buio e lontano del cortile, ben lontano dai suv e dalle macchine di lusso.

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Saliamo nelle camere a prepararci e, alle 23:30, andiamo a cena al ristorante Турандот (Turandot) dove ci saziamo con alcuni dei migliori piatti cinesi della nostra vita. Infine, ben oltre l’una di notte, andiamo a dormire.